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Poveri quelli cui mancano le piazze
"Aria pubblica", una poesia di Patrizia Cavalli

Aria pubblica

L'aria è di tutti, non è di tutti l'aria?
Così è una piazza, spazio di città.
Pubblico spazio ossia pubblica aria
che se è di tutti non può essere occupata
perché diventerebbe aria privata.
Ma se una piazza insieme alla sua aria
è in modo irrevocabile ingombrata
da stabili e lucrose attività,
questa non è più piazza e la sua aria
non è che mercantile aria privata.

(Non c'è più Pantheon e non c'è più Navona,
Campo de' Fiori è Cuba di Batista).


Cos'è una piazza, cos'è quel dolce agio
che raccoglieva i sensi di chiunque
abiti a Roma o fosse di passaggio?
Un vuoto costruito a onor del vuoto
perché a costituirla è proprio il vuoto.
Non fosse vuota infatti non potrebbe
accogliere chi passa e se ne va.
Per dargli maggior credito s'innalzano
fontane e statue: certo sono belle
e grazie al vuoto vantano splendore.
Ma c'è qualcosa che è più della bellezza,
è il loro appartenere necessario
a quel sicuro chiaro spazio vuoto.
E questo è più orgoglioso grazie a loro.
Un vuoto generoso di potere,
una salute certa dello spirito,
un beme di città fatto interiore.
Poveri quelli cui mancano le piazze.

(I delegati a consefvare il bene
di tutti, cittadini e forestieri,
fuggono il vuoto come peste nera,
per loro il vuoto è vuoto di potere.
Non c'è piazzetta o slargo o marciapiede
strada o rientranza che, sequestrata,
non si trasformi in gabbia. Da riempire.
Che cosa la riempa non importa.
Chiasso puzze concerto promozioni
i cinquemila culturali eventi
fiere-mercato libri chioschi incensi
corpi seduti o in piedi nella mischia,
purché sia tutto pieno, dura festa.
Sì, li commuove il numero, e per loro,
i fatui e solerti promotori,
gli animatori Mediterranée,
vita che ferve è il numero di birre
che viene consumato in una notte
- si ferma il sangue alle bottiglie rotte
che a scrosci inaspettati l'Ama inghiotte,
sadica Ama, a memento della notte).


E' naturale che si vada in piazza,
ci vanno tutti, e certo non c'è piazza
che si attraversi in fretta: quasi una timidezza
rallenta il passo alle fontane, all'acqua
che fa il suo giro e torna su se stassa.
La mente sosta insieme al corpo e guarda
lo spazio e l'aria del riposo, ossia
la piazza.

(Ora è una fuga torva verso casa
fra stretti corridoi di ferraglie,
ora è l'inciampo, l'ostacolo, il disgusto,
l'inimicizia, l'odio degli oppressi).


Dunque una piazza va lasciata in pace,
non è merce da farne propoaganda.
Ci pensa lei da sola ad animarsi,
quello che importa è che sia pubblica piazza.
Si vuota si riempie e poi si vuota,
accoglie chi sta fuori e lo contiene
finché sta fuori, che prima o poi dovrà
tornare dentro. E se non è così
non è più piazza, è privata terrazza
o lugubre infinito lunapark.

(Sonno rubato a noi quasi bosniaci
cui suggeriscono in conferenze stampa
di abbandonare case e territorio
- nessuno ci impedisce di andar via).


La felice bellezza negligente
sta ferma intorno a te senza rumore,
l'hai vista, sai che c'è, nranche la guardi.
Era il lusso di andarsene per Roma.

(Come faccio a non sentire quel rumore,
come posso, anche volendo, non vedere
quell'ingombro massivo e prepotente
che intralcia i passi e che la vista offende?
Le ignobili fioriere stercorarie
che a loro alibi hanno pianticelle
sporche e avvilite, a morte destinate?
I tavoli, gli ombrelli, le sediole,
le stufe a gas letali, i cellulari,
che attrezzano chiunque a far casetta,
con veranda? Le insegne tozze e storte,
di sbieco i cavalletti coi menù,
ferri sporgenti pronti allo sgambetto,
transenne traballanti e le ringhiere
che chiudono in recinto i più paganti?
Gonfi recinti svelti a dimagrirsi
quando arriva la finta dei controlli.
Come faccio a non vedere la fatica,
quasi ridicola, di chi si ostina
a spingere il pupetto in carrozzina?
E lui cosa vedrà, laggiù nel basso?
Se non è merca è piscio e noccioline.

Non c'è più il dentro, finito anche l'inverno,
ora ogni dentro si è triplicato in fuori
per ingordigia di prendere e occupare,
che tanto poi ti lasciano restare.
"Ma io lavoro, che credi? io lavoro!"
"Cara, è la storia, non la puoi fermare".
I furbi avidi lo chiamano il Lavoro,
i pigri ipocriti la chiamano la Storia.
Storia e Lavoro, la famosa coppia.

Non basta togliersi a quella bieca vista
abbandonando la feroce piazza,
perché l'offesa t'insegue nell'udito
supera porte e ottusi doppi vetri,
sciupa le notti e fa risvegli smorti,
rovello che s'insedia nei pensieri,
un male di città fatto interiore).

Ci sono forse altre città nel mondo
che hano piazze più belle delle nostre?
Piazze perdute alla vista e al cuore,
piazze vendute insieme alla città?

Patrizia Cavalli


(grazie a Rossana Stella)



Patrizia Cavalli

Inserito lunedì 8 giugno 2009


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