Non siamo in guerra: siamo messi molto male
La Presidente di una regione non può aver paura ed essere impotente. Serviva il coraggio e il senso di responsabilità e, ai vertici della sanità, dirigenti a conoscenza del territorio umbro, consapevoli delle risorse finanziare, professionali e umane e delle carenze della sanità umbra, non di “colonizzatori” chiamati dal Veneto
In Umbria e a Perugia non siamo in guerra, per il semplice motivo che i virus non dichiarano guerre: si diffondono quando non si mettono in pratica comportamenti individuali adeguati e da parte di chi in una regione ha la responsabilità della sanità non si prendono in anticipo le misure necessarie a contenerlo e contrastarlo.
È quello che è successo in Umbria, specie nella provincia di Perugia, dove ora paghiamo un pegno salatissimo. Di fronte al quale la Presidente di una regione non può dimostrare di aver paura e d'essere impotente, ma di aver chiaro cosa succede, perché accade e, soprattutto, cosa fare prendendo decisioni rapide e, se necessario, scomode. In Umbria è stato fatto il contrario, per molto tempo nulla. Tanto è vero che all’inizio della seconda ondata eravamo l’unica regione a non aver aumentato un posto in rianimazione (fonte "I numeri della pandemia" di Sky). Il problema è che per prendere le misure necessarie serviva il coraggio e il senso di responsabilità necessari, e, ai vertici della sanità, dirigenti a conoscenza del territorio umbro, consapevoli delle risorse finanziare, professionali e umane (quest’ultime due altissime) a disposizione e delle carenze della sanità umbra, non di “colonizzatori” chiamati dal Veneto con la missione di privatizzare la sanità pubblica umbra e non di renderla più efficiente. È ovvio che poi, se ti trovi nel mezzo di una pandemia con quei collaboratori, quell'assessore alla sanità e l’unica esperienza amministrativa che hai è quella di sindaca di un piccolo ricco comune, non ti rimane che aver paura e chiedere aiuto al disprezzato Servizio sanitario nazionale.
Vanni Capoccia
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