Il vento ha scritto la mia storia
Una visione del proprio comune utopica e proprio per questo concreta che nasce dalla consapevolezza della condizione di tanti paesi calabresi svuotati dal bisogno dei loro abitanti di andare “altrove” per sopravvivere
Da quando ho terminato di leggere “Il Fuorilegge” di Domenico Lucano non riesco a staccare da quello che c'è scritto, l'ingiustizia e la cattiveria che ha subito sono così grandi che non so farmene una ragione. È un libro che coinvolge emotivamente e fa capire che il modello Riace è sì dovuto al casuale naufragio di migranti curdi nella marina di un paese morente ma è alimentato dalle esperienze politiche e sociali di un uomo che ha saputo guardare lontano. Soprattutto dal suo rapporto intenso, empatico con Riace che si manifesta nell'avere compresenti, in questo Lucano è di una religiosità capitiniana, i riacesi che non ci sono più; nel ricercare l'acqua dove la cercavano loro; nel riesumare i loro orti e i loro lavori; nella volontà di riallacciare i legami con i riacesi all'estero al punto di sentire in una sala a Ellis Island il respiro di tutti gli emigranti sbarcati a Nuova York: “per un istante infinito, ho avuto l'impressione di sentire i sussurri delle voci che passarono sotto il suo tetto, voci di migranti europei in cerca di futuro per sé e per i propri figli” Una visione del proprio comune utopica e proprio per questo concreta che nasce dalla consapevolezza della condizione di tanti paesi calabresi svuotati dal bisogno dei loro abitanti di andare “altrove” per sopravvivere e dalla possibilità di continuare a essere una comunità viva e non morente che poteva dare l'accoglienza dei migranti che attraversano in fuga i confini come quelli sbarcati casualmente a Riace e con i quali iniziò l'esperienza di Riace. “Il Fuorilegge” è una lettura edificante ma non rassicurante. L'atto d'amore di un figlio per la propria terra, il proprio paese, l'ammasso di case della Riace vecchia. Un viaggio interiore che fa riemergere il suo percorso esistenziale e-politico e nasce dall'incontro con quei migranti curdi e dal recupero di radici lontane che Mimmo ripercorre a ritroso seguendo i fili della diaspora riacese tenuta insieme dai santi Cosma e Damiano cui Riace si è affidata. Un percorso che non lascia scivolare tutto in superficie ma costringe chi legge a entrare nel proprio profondo mettendolo di fronte ai propri limiti, al proprio voler essere come lui senza avere la forza interiore di diventarlo. È un visionario Mimmo Lucano che aveva capito che una ragione per Riace andava cercata nelle sue radici: in quelle che si erano insediate altrove e in quelle sotto le finestre di casa la cui memoria indicava dove coltivare gli orti, quali botteghe artigiane riaprire, i toponimi dove andare a cercare l'acqua, di riutilizzare gli asini. Esperienza “immateriale” ma concreta che tutt'ora continua anche se depotenziata, grazie alla quale un luogo non ricco e in rapido abbandono è diventato luogo di immigrazione nel quale accoglienza e integrazione vanno di pari passo nel tentativo di “costruire dinamiche vitali, durature”. Esperienza esportabile nei tanti piccoli comuni di montagna del nostro paese che ha fatto dire a Wim Wenders andato a Riace per documentarla: “Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l'accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento”. È anche un uomo solo che aveva trovato un punto di riferimento in Dino Frisullo che ha lasciato in lui “un segno indelebile”. Mimmo gli dedica una pagina traboccante affetto scrivendo una piccola inesattezza; dice che la sua formazione è avvenuta a Bari, mentre il suo percorso è iniziato a Perugia nella sede di Avanguardia Operaia che gli chiese di tornare come suo militante in Puglia dov'era nato. È stato in quella sede polverosa, piena di fumo, carta per ciclostile e manifesti che siamo diventati compagni e amici. Era il migliore di tutti noi e ha coltivato i suoi sogni fino all'ultimo giorno della sua vita. Mi si è aperto il cuore nel leggere che i sentimenti che Domenico Lucano prova verso Dino sono gli stessi che proviamo noi a Perugia che abbiamo vissuto con lui negli anni della rivoluzione come li chiama Severino Cesari, anche lui parte di quella vita, nel suo libro. La commozione accompagna per tutta la lettura, persino nel leggere la relazione finale degli ispettori che fanno di tutto per non fargliela avere: non è uno scritto burocratico ma un atto d'amore verso il cammino intrapreso da Riace e Domenico Lucano. “Sembrava il racconto di una fiaba” scrive Mimmo a conclusione del suo toccante racconto nel quale vicende personali e storia di un luogo s'intrecciano e lui sintetizza con una frase bellissima “il vento ha scritto la mia storia”. È vero l'ha scritta il vento ma nella roccia, e quando dell'attuale sindaco di Riace che fa di tutto per cancellare questa storia non si ricorderà nessuno ci sarà chi ricorderà il Sindaco Mimmo Lucano, l'umanità che ha trasmesso nel suo operare, il suo concreto sogno.
Vanni Capoccia
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