Un inedito di Capitini: La Resistenza continua
"Parlare della Resistenza italiana non sarebbe completo né esatto, se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la Resistenza armata, ma anche la Resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 1925
dalla rivista Il Ponte n. 10, 2017, pp. 70-81 Fra le carte di Aldo Capitini, il cui archivio è conservato
presso l’Archivio di Stato di Perugia, non è difficile imbattersi in suoi
scritti rimasti inediti, che attendono d’essere studiati e resi pubblici. Fra
questi vi è un testo autografo, recentemente “ritrovato” e datato 24 aprile
1955. Siamo alla vigilia del decennale del 25 aprile e, come stabilito da
disposizioni della Presidenza del Consiglio dei ministri e del ministero
dell’Interno, tra il 24 e il 25 aprile si svolgono nei maggiori centri umbri
manifestazioni solenni. Le direttive ministeriali (1) auspicavano una massiccia
partecipazione popolare e per la prima volta, da quando si celebrava la data
del 25 aprile, si sollecitava il coinvolgimento degli istituti scolastici di
ogni ordine e grado con la partecipazione della popolazione studentesca. Capitini scrive con la consueta lucidità e con appassionato
vigore sul tema della Resistenza, parola chiave che apre e chiude il
manoscritto, redatto alla vigilia della sua partecipazione in qualità di
oratore ufficiale assieme a Raffaello Monteneri, presidente del Comitato di
liberazione nazionale di Perugia, alle celebrazioni che dovevano svolgersi al
teatro Concordia di Marsciano, cittadina a pochi chilometri dal capoluogo (2). Tutto quindi fa supporre che il testo sia stato concepito
per una lettura pubblica da tenersi, non il giorno dopo a Marsciano, ma a
Perugia, nel palazzo dei Priori (forse nella Sala dei Notari, luogo delle
adunanze popolari) dinanzi ai suoi concittadini: ricorda infatti quando i
fascisti «penetrarono in questo palazzo […] cercando e frugando per trovare gli
assessori dell’amministrazione socialista (3), e mi ricordo che ad uno offrii
il letto per la notte perché non uscisse dal palazzo e non stesse negli
uffici», e più avanti quando rammenta l’incontro con la giovane Luce Einstein
(4) nelle scale del palazzo «fuori dalla Pinacoteca», o quando mette
sull’avviso che «chiunque tentasse di fondare un impero oggi nel mondo, noi da
questa Italia, da questi palazzi antichi, da questa piazza dove parlò San
Francesco, diremo che non si può tornare indietro». Il testo è stilato con partecipata intensità, per poi
essere, in un secondo momento, emendato con il segno blu oppure evidenziato in
alcuni punti, come era sua consuetudine, con la matita rossa, a sottolineare e
a porre enfasi su passaggi significativi, al momento della lettura. L’apertura è dedicata a sgombrare il campo su cosa si debba
intendere per Resistenza che non fu solo quella armata dall’8 settembre 1943 al
25 aprile 1945, ma di eguale peso e rilevanza fu la Resistenza politica che
ebbe inizio il 3 gennaio 1925, data che segna l’inizio della dittatura fascista
ma appunto anche il principio di un’attività politica clandestina di
opposizione che caratterizzò l’intero ventennio successivo. Se è vero che si rivolge ai «cari concittadini», fin
dall’inizio e in modo costante il suo pensiero è rivolto ai giovani e ai
giovanissimi, protagonisti essi stessi della Resistenza, e che ora, nella
ricorrenza del decennale, vanno spronati affinché mantengano viva la memoria di
quanto accaduto e non si scoraggino davanti ai risultati deludenti di questi
primi anni di vita della Repubblica. Devono esigere che la Costituzione venga
«attuata» e che essi stessi «la svolgano». I temi su cui si snoda il discorso, come lo stesso Capitini
enuncia in apertura, sono «l’approfondimento ideologico, il collegamento fra le
persone e l’educazione dei giovani», ma il filo rosso che collega tutto è
l’attenzione alla gioventù (5). Poche sono le pagine in cui le parole «giovani»
e «giovanissimi» non compaiono, a rappresentare sia il ruolo centrale che
effettivamente essi svolsero durante la Resistenza ma anche l’impegno che devono
continuare a mantenere perché «la Resistenza continua». Delusi e traditi dal
fascismo, andarono cercando e avvicinando i vecchi antifascisti, i quali si
dedicarono alla loro educazione e formazione. Nel decennio 1932-1942, si
registrò «l’affluire crescente dei giovanissimi all’antifascismo» e Capitini ne
avvicinò moltissimi, non solo a Perugia, dove divenne punto di riferimento e di
aggregazione prezioso, solo apparentemente isolato nel chiuso del suo studiolo
posto sotto la torre campanaria di Palazzo dei Priori. Rigoroso qual era,
incoraggiò lo studio dei pochi testi del pensiero comunista e socialista, di
cui si disponeva clandestinamente. Lunghissima è la lista di coloro ricordati a
vario titolo, a cominciare dai capi dell’opposizione Piero Gobetti, i fratelli
Rosselli e Antonio Gramsci, per proseguire nell’elenco con i cosiddetti
giovanissimi che si avvicinarono al movimento di opposizione e che vennero in
contatto con lui. Fra questi, Lucio Lombardo Radice, Claudio Baglietto, Giaime
Pintor e Antonio Giuriolo, senza dimenticare tra gli allievi perugini più amati
Primo Ciabatti (1920-1944) (6) e Riccardo Tenerini (1920-1985) e l’allora
giovane studente perugino Walter Binni (7). Sono una miriade i nomi di
personalità note, meno note e conosciute solo a livello locale, ricordate a dar
conto della vivacità e ricchezza, non solo in termini numerici, dei rapporti
che Capitini intratteneva in quegli anni. Nel lungo discorso, non manca la
stoccata alla Chiesa romana, la cui vicinanza al regime fascista, secondo Capitini,
ha ostacolato la possibilità che in Italia si realizzasse una non
collaborazione nonviolenta, che avrebbe potuto determinare così l’immediata
caduta del fascismo. In questo contesto, segnala l’urgenza che si attui «un
rinnovamento religioso» e rivendica con orgoglio il suo essere un «libero
religioso». Restituisce un’immagine di Perugia, centro di antifascismo
assai vivace, nel quale si era costituita «una specie di sottocittà», i cui
componenti, intellettuali, studenti e lavoratori assieme, riuscivano a
mantenersi in contatto, sostenersi vicendevolmente e riunirsi per scambi di
opinioni e di letture. Nonostante gli stretti controlli polizieschi, la città
veniva regolarmente raggiunta da numerosissimi intellettuali uniti nel tessere
il movimento antifascista in Italia. Ma da Perugia, Capitini racconta come si
spostassero sia lui sia i suoi amici, viaggiando in semiclandestinità per non
dare nell’occhio, recandosi a Firenze, Pisa, Bologna, Vicenza, Roma, Napoli e
Bari, per creare quella rete di collegamento fra persone e idee. Certo che il
Regime sarebbe prima o poi crollato, s’impegnò con costanza e determinazione su
tutti i fronti, senza perdersi d’animo, nonostante l’allontanamento da Pisa
(1933) e i ripetuti arresti (1942 e 1943). Va ricordato, proprio in relazione
all’impegno e all’intensa attività contro il Regime, che fin dal 1930 la
Questura di Perugia aveva intestato a suo nome un fascicolo, nella serie
«Schedati» (8), che documenta la serrata attività di controllo esercitata dalla
polizia. Centrale, come racconta, fu il lavoro svolto dal Reale
istituto di studi filosofici, fondato assieme ad Averardo Montesperelli (9),
che offrì l’occasione per seminari e convegni a cui parteciparono fra gli altri
Nicola Abbagnano, Felice Battaglia e Mario Dal Pra, insieme a tanti altri
intellettuali che avrebbero ricoperto ruoli di primo piano nell’Italia
repubblicana. Ricorda che a Perugia si costituì nel 1936 quello che è
considerato il primo Comitato di rappresentanti delle diverse correnti
antifasciste in cui fianco a fianco si trovarono socialisti, cattolici,
repubblicani, mazziniani e i futuri liberalsocialisti. Un periodo fra i più
esaltanti per la storia di Perugia, città chiusa in un apparente anonimato, ma
in realtà fervida nella lotta antifascista. Certamente il rientro di Capitini
da Pisa ebbe un influsso vivificante, mise in moto le energie migliori presenti
in città e riuscì a coinvolgere le generazioni più giovani. Anche nella seconda parte del discorso, quella conclusiva, i
destinatari sono sempre i giovani ai quali è affidato il compito di presidiare
la Costituzione e che, seppur delusi dal primo decennio di vita repubblicana,
non devono guardare indietro ma proiettare il loro impegno nel futuro per
realizzare «quel mondo veramente nuovo di apertura religiosa e sociale per
tutti, libero e giusto per tutti […], perché, o cari concittadini, la
Resistenza continua». Come accennato in apertura, non si sa se e quando ci fu
una lettura pubblica, certamente nei mesi immediatamente successivi ne utilizzò
i contenuti come dimostrano gli articoli pubblicati in riviste di diffusione
sia locale sia nazionale (10). Inoltre è sicuramente da considerarsi alla base
di una delle sue opere fondamentali, Antifascismo tra i giovani,
pubblicato per la prima volta nel 1966 (11). Anna Alberti LA RESISTENZA CONTINUA A Perugia, 24 aprile 1955 Parlare della Resistenza italiana (12) non sarebbe completo
né esatto, se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la
Resistenza armata dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 (13), ma anche la
Resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 3 gennaio 1925. Perché
prima dell’ottobre 1922 il fascismo poteva dirsi una corrente politica di
opposizione in mezzo ad altre correnti, e dal novembre del ’22 al 3 gennaio poteva
dirsi, sebbene già con arbitri, violenze ed illegalità, un governo
costituzionale; ma dal 3 gennaio, sotto l’incalzare dei memoriali che mettevano
in evidenza i nessi tra i capi fascisti e il delitto Matteotti, fu stabilito il
regime e soppressa la libertà di stampa, di associazione, di propaganda, di
controllo. Da allora l’antifascismo diventò fuori legge e fu costretto a farsi
cospiratore e rivoluzionario; e quella fu l’occasione che, sotto i colpi della
persecuzione e al cospetto della alleanza tra il fascismo e le altre autorevoli
forze dell’Italia, la Resistenza antifascista costituisse la sua profondità di
opposizione, la complessità delle sue ragioni, il suo metodo di lotta che
riportava intellettuali e popolani al metodo del Risorgimento dell’Ottocento. Non è ancora sufficientemente noto, né all’Estero né a tutti
in Italia, che l’opposizione al fascismo non restò immobile nei superstiti
delle forze democratiche, socialiste, comuniste, libertarie, repubblicane, co-
stretti all’esilio, o alla prigione, al confino, al silenzio, né la reazione al
regime si estrinsecò solamente nelle mormorazioni o nella dissidenza slegata.
Vi fu un continuo e crescente lavoro, che fu di approfondimento ideologico, di
collegamento tra persone, di educazione dei giovanissimi. Vediamo brevemente qualcosa su questi tre temi. Il fascismo che si era mosso con una presunzione
rivoluzionaria, si era presto mutato in arma di violenta difesa delle forze
della conservazione sociale, preoccupate e impaurite che le moltitudini portate
alla guerra chiedessero quella giustizia economica quell’elevazione sociale di
cui il recente sacrificio le faceva degne e di cui il partito socialista le
rendeva coscienti. Bisognava colpire quelli che Giacomo Matteotti chiamava i
fondamenti della democrazia: i comuni, i sindacati, le cooperative, la scuola.
E le squadre fasciste assalivano le Camere del lavoro tenute da operai senza
armi e non difese dalla polizia del governo, distruggevano cooperative,
penetravano nei Municipi, come avvenne qui stesso quando fascisti armati di
Perugia e di Firenze penetrarono in questo palazzo, dopo aver ucciso
l’orologiaio Stivalini (14) nel Corso, cercando e frugando per trovare gli
assessori dell’amministrazione socialista; e mi ricordo che ad uno offrii il
letto per la notte perché non uscisse dal palazzo e non stesse negli uffici.
Quanto alla Scuola, l’impadronimento doveva avvenire poi, mediante il governo e
l’Opera Balilla, ma non senza penetrarvi prima con la violenza, come fu a Pisa
dove il maestro socialista Carlo Cammeo fu ucciso una mattina alle otto e
mezza, nel cortile della scuola, ponendogli una rivoltella al petto alla
presenza dei fanciulli atterriti. Contro questo programma di distruzione della democrazia,
decorato di teorie irrazionaliste e sotto la veste di un patriottismo
esasperato e stravolto, fu necessario prender più precisa coscienza delle
ragioni dell’opposizione, che raggiunse perciò punti di una profondità e
complessità superiori a quelli delle democrazie che si svolgevano
incontrastate. La presenza di uno statalismo con strapotere dei funzionari e
dei gerarchi e imbottimento del cervello degli altri; l’appoggio
dato all’oppressione dal capitalismo dei “padroni del vapore”, gettata la
maschera liberale; l’assenza dell’istituzione religiosa tradizionale dalla
difesa della libertà e della giustizia; erano lezioni profonde, quotidiane,
dure. Non si dicesse che la violenza era dalla parte delle masse,
perché violenza ben più sistematica e feroce fu quella, dal 1919 in poi, di
giovani usciti dalle classi della borghesia e della nobiltà. Non si dicesse che
da parte del socialismo del dopoguerra c’era il disordine, perché esso era nel
travaglio di darsi un ordine nuovo, che se avesse prevalso, avrebbe affrontato
lui i problemi che ancora attendono soluzioni che siano per il vantaggio di
tutti, e non dei pochi soliti. Il fatto è che piacque quell’ordine, che era
intrinsecamente un disordine, come si vide poi sempre più finché si è arrivati
alla più grande tragedia che l’Italia abbia avuto da più di mille anni (15).
Già che all’Italia capitava la sventura di fare esperienza della somma di tutto
ciò a cui si deve contrastare, ecco che la problematica politica e morale si
approfondì, e vi furono studi, saggi, libri anche, che circolarono parte
clandestini e parte scopertamente. Si riprese lo studio del pensiero socialista
e comunista anche su pochi testi, perché mancava la ricchezza e perfezione
delle edizioni attuali; si lavorò a distinguere la libertà, come esigenza
morale e giuridica, dal liberismo economico e dal capitalismo, avvicinandola
invece al socialismo come momento interno allo sviluppo stesso della libertà; e
si gettarono le basi di un rinnovamento religioso, che fondato sulla “infinita
apertura dell’anima”, e sulla non violenza, sull’unità amore, e più vicino
all’esperienza dei grandi spiriti religiosi riformatori e liberatori, più
vicino di quanto lo fosse la religione ufficiale, desse finalmente all’Italia
quella purezza e serietà di vita religiosa non più medievalistica, quella
riforma religiosa che è stata finora l’aspirazione fallita di minoranze
strenue. Diciamolo pure: se in Italia si fosse operata una non collaborazione
generale, coraggiosa, tenace verso il regime fascista, negandogli ogni appoggio
e ogni mezzo, ma senza torcere un capello a nessuno, proprio secondo il metodo
Ghandi, in poche settimane il regime avrebbe finito di funzionare, e si sarebbe
evitato il governo di Hitler, le due guerre di Etiopia e di Spagna e la Seconda
guerra mondiale. Non potevamo perciò non sentire un distacco e un disgusto per
chi poteva far questo con tutta un’autorità e influenza capillare, e invece
questo non fece. I miei amici sanno che questo era il mio pensiero e il mio
sogno; e per questo rifiutai l’iscrizione al partito e fui cacciato dal posto, e
per questo diffondevo scritti e scrissi il libro che uscì da Laterza nel 1937
intitolato Elementi di un’esperienza religiosa e poi un altro, Vita
religiosa, libri di cui la Polizia non si accorse, e nemmeno si servì per
trovarvi capi di accusa nei mesi e mesi che fui in prigione, e sapete perché?
Per una ragione molto semplice: perché nei titoli c’era la parola “religiosa”,
e questa faceva sbadigliare i commissari e i questori; la ritenevano innocua;
il che non fa per nulla onore alla religione com’è insegnata e sentita, visto
che veramente la religione quando è viva è all’avanguardia delle civiltà e del
loro rinnovamento, non alla retroguardia. Certo, i miei discorsi erano non da
cattolico, ma da “libero religioso” quale mi dichiaro. Ma io domando: un religioso,
che si trovi in una società sbagliata come l’attuale, dopo cinque, dieci,
vent’anni, che non ha visto venire in casa i poliziotti, non dovrebbe fare un
esame di coscienza per vedere se veramente egli è religioso in tutto il senso
dinamico della parola? L’antifascismo dovette stabilire accurati collegamenti. Il
fascismo voleva dividere, disperdere, impedire ai cervelli di funzionare (come
fu detto del nobilissimo cervello di Gramsci), ed esercitava un controllo sulle
lettere, sulle telefonate, sui viaggi. E noi ci demmo, specialmente nel
decennio dal 1932 al ’42, a cercare antifascisti dovunque fossero, a metterli
in rapporto tra loro, a rianimare i gruppetti perché non fossero scoraggiati
dalla vistosità dei successi del regime. Specialmente dopo che la ferocia
governativa del primo decennio aveva colpito tanti e stroncato in gran parte il
movimento di Giustizia e Libertà, ridotto a vivere piuttosto all’Estero che in
Italia, fu necessario nel secondo decennio fare un lavoro paziente di
collegamento che stabilisse uno scambio e un aiuto fraterno tra i perseguitati.
E qui avvenne un fatto, che è grande, innegabile e documentabile: l’affluire
crescente dei giovanissimi all’antifascismo. Potrei dire a lungo di questo,
perché per alcuni anni ho accostato tanti e tanti giovanissimi in molte città
d’Italia, li ho visti aprirsi, svolgersi, rifiutare il fascismo, che aveva
tentato di sedurli con eccitazioni esteriori, e che li tradiva sottraendo loro
l’esatta informazione dei fatti e l’aperta formazione delle idee, nel dibattito
e nella libera conoscenza culturale. Giovani erano stati capi dell’opposizione,
come Gobetti, i Rosselli, Gramsci; ma ora, specialmente dal ’35 in poi erano i
giovanissimi che a poco a poco, davanti a imprese guerriere che non risolvevano
i problemi italiani e svelavano, invece, il volto reazionario del regime; e
davanti allo staracismo, davanti alla goffaggine dei gerarchi e alle menzogne
della stampa, che cominciarono ad amare, a cercare ciò che fosse schietto,
puro, libero, giusto. Lucio Lombardo Radice ha detto una volta che fu questo
desiderio di verità che li prese in quegli anni dal 1935 al 1939, la volontà di
cercare quello che fosse lo stato e l’animo autentico degl’italiani, diet[r]o
le [parola illeggibile] littorie, le cerimonie riportate dal film Luce, la
retorica ufficiale. Si edificava Littoria, e si lasciava il Mezzogiorno in mano
ai latifondisti sfruttatori. Si distribuivano fogli da mille lire nelle varie
inaugurazioni e si stringevano e soffocavano i lavoratori nelle maglie ferree
di un corporativismo fabbricato apposta per ingannarli e immobilizzarli. I
giovani imparavano a veder questo, e noi, che avevamo visto il tempo di prima,
imperfettissimo certamente, ma in cui era almeno possibile scegliere a
vent’anni il proprio partito, che aveva sue sedi e suoi giornali, ed era
possibile leggere giornali di varie tendenze, gliene parlavamo, e ad essi
questo pareva un sogno, una irrealtà, ma che sarebbe dovuta essere se ci
univamo. Così essi cercavano i vecchi antifascisti, li avvicinavano con
reverenza, e si veniva operando il congiungimento del vecchio e nuovo
antifascismo che poi doveva dare risultati fondamentali. Questo, del costituirsi di un antifascismo di giovani che
studiarono e lavorarono per svegliare altri, fu il fatto che fece sì che poi,
dopo l’8 settembre, quelli che affluirono lì per lì alla macchia e
all’insurrezione, trovassero chi li orientasse, li istruisse, li guidasse.
Anche questa è una conferma che la Resistenza non cominciò effettivamente l’8
settembre 1943, ma molto prima. Quelli che dicono che le forze che muovono la storia sono il
cinismo e la spietatezza, la frode e la sopraffazione, vedono qui quanto è
errata l’estensione della loro teoria a tutto, e quanto valgono quegli sdegni
morali che scaturiscono dalla profondità della storia, e vengono prima della
politica stessa. In quegli anni non fu tanto il ragionamento sugli errori della
politica estera o interna, per esempio sullo sbaglio che fu l’Impresa etiopica
che fece perdere l’influenza che l’Italia aveva in Europa, salire la Germania e
avviare alla nuova Guerra mondiale, non fu tanto l’esame pacato della politica economica o
sindacale, quanto, prima di ogni altra cosa, una rivolta dell’anima contro una
mistica sbagliata e contro il principio che il fine giustifica ogni mezzo, il
desiderio di un impiego più puro di se stessi, a mutare i migliori giovani. Quanti ne ho conosciuti allora, e ricorderò solo il nome di
qualcuno dei morti, Giaime Pintor, Claudio Baglietto, Antonio Giuriolo, Primo Ciabatti,
Edgardo Valpiani, che, scrollatisi l’influenza fascista di dosso, si erano
aperti coraggiosamente perché aveva[no] compreso la possibilità di una vita
della coscienza migliore di quella che vedevano nelle persone al potere. Che cosa avrebbero fatto Garibaldi e
Cavour se non avessero trovato giovani formati già ad una fede profonda e più
pura di quella dei dominanti? In questo lavoro di educazione, di preparazione, di
organizzazione, che se non poté comprendere tutta l’Italia e tutti (e di ciò si
è doluto anche Parri, che io vedevo allora a Milano, quando l’altra sera alla
radio ha detto la sua tristezza il giorno della Liberazione per «una lotta che
non aveva potuto incidere a fondo e rinnovare il Paese»), e noi sappiamo per
quali difficoltà, in questo lavoro Perugia non fu indietro, anzi fu un centro
di antifascismo, da cui moveva e a cui arrivava un intenso scambio di scritti e
di persone. La vittoria del fascismo aveva lasciato non domato un numero
rispettabile di perugini, socialisti, libertari, repubblicani. Quando io fui
cacciato dal mio posto di Pisa nel ’33, presi a poco a poco ad avvicinare
questi concittadini, che non avevano piegato, e che si sarebbero fatti sbattere
per terra, ma, con la semplicità e sobrietà del nostro popolo, avrebbero incassato
in silenzio: Aristide Rosini (16), [Marzio] Pascolini, [Cesare] Cardinali, Enea
Tondini, nel cui magazzino celebravamo il Primo Maggio, [Paolo] Canestrelli,
[Remo] Roganti, [Ilvano] Rasimelli e [Maria] Schippa, [Gino] Spagnesi lo zio di
Riccardo, [Alfredo] Abatini, Galassi. C’è stato anche altro a Perugia, e
arresti, martìri, le famose scritte (17), l’attività per anni dell’Istituto di
studi filosofici, che ci permise di trattare temi antifascisti e di far venire
antifascisti come, oltre i nominati prima, Nicola Abbagnano, Felice Battaglia,
Mario Dal Pra ed altri. Quando venne il 25 luglio eravamo molti in prigione, e,
liberati che fummo, ci contammo meglio, trovammo anche altri. Era vicino il
momento in cui tutto quello che era stato fatto avrebbe dato il suo frutto. Ma
si ricordi che, se non ci fosse stato un lavoro di preparazione e di risveglio,
l’Italia non avrebbe avuto quella freschezza di vita, quel vigore morale e
intellettuale che la portò alla Costituzione repubblica[na] democratica,
affidata soprattutto ai giovani perché la esigano attuata e la svolgano. So che vi sono dei giovanissimi che non hanno vissuto
consapevolmente gli ultimi anni del fascismo, ma, formatisi in quest’ultimo
decennio, hanno preso su idee, temi, modi del passato fascismo, forse delusi
dalla democrazia attuale, forse per esigenze di qualche cosa di energico. Ora,
ad essi noi possiamo ben dire che siamo i primi ad essere scontenti del
decennio, e che il più severamente abbiamo accusato e accusiamo i gruppi dirigenti
e governativi di aver trascurato di aggiornare la scuola, di portarvi un soffio
di rinnovamento, di avvicinarsi ai giovani, intendendo il loro bisogno
essenziale, che è, insieme, di alti esempi e di libertà. Ma diciamo anche che
non possiamo tornare indietro a quello che fu un nodo tragico di errori e di
delitti. Dalla Libera[zione] sono stati commessi errori, tutti ne abbiamo
fatto, ma se ci trovassimo di colpo in quel tempo, ci parrebbe un sogno
orrendo. Si pensi ad una cosa soltanto: la caccia agli ebrei. Un giorno, quando
la famiglia del cugino di Einstein abitava nei dintorni di Perugia e Luce
Einstein, intelligentissima ragazza, mi dicevano, frequentava il Liceo
classico, io la incontrai per le scale di questo palazzo, fuori dalla
Pinacoteca, e mi domandò se sapevo quando avrebbero aperto. Questa ragazza con
sua sorella e sua madre furono poi uccise dai mitra delle SS tedesche in una
stanza di una casa della campagna toscana. Di che cosa era colpevole? Di che cosa erano colpevoli i milioni di ebrei uccisi
sistematicamente nei campi di sterminio? Di non aver potuto scegliere i loro
genitori e chi rifiuterebbe la propria madre e il proprio padre? Che orribile
tragedia! Ma non torneranno quei tempi; non rifaremo il triste ciclo dal 1919
al 1945. Noi vediamo bene la differenza che c’è tra oggi e quel primo
dopoguerra, quando si formò il fascismo. Oggi una folla di intellettuali e
milioni di lavoratori sono uniti e nulla può dividerli, oggi c’è una padronanza
della propria forza molto più di allora. Oggi c’è maggiore maturità, e una
volontà più precisa di democrazia. Ed anche la presa di un nazionalismo, di un
imperialismo è grandemente diminuita. [Attilio] Cuccurullo, [Guglielmo]
Miliocchi, Mariano Guardabassi, Luigi Severini e Luigi Catanelli, che per anni
e anni fu l’elemento fondamentale di un’attività molteplice, e il generoso don
Angelo Migni Ragni prontissimo e solidale. Non è possibile ricordare qui tutti,
né è possibile spiegare come a poco a poco si formasse una specie di sottocittà
che viveva in questo legame antifascista e aveva i suoi negozi, i suoi scambi
di aiuto e di incoraggiamento, le sue riunioni; e c’erano i vecchi amici come
Alberto Apponi, uno dei pochi magistrati italiani che non avevano preso la
tessera, Walter Binni, Averardo Montesperelli, Armando Fedeli, Bruno Enei,
Giorgio Graziosi, Mario Frezza, Franco Maestrini, Uguccione Sorbello, Ottavio
Prosciutti, Aldo Arcelli, il fratello del medico, Francesco Francescaglia,
Fausto Andreani. Intanto altri si erano aggiunti, venuti apposta a Perugia per
lavorare insieme, perché lo sapevano un centro di antifascismo, e ricorderò
Agostino Buda, Emanuele Farneti, Arturo Massolo, Giuseppe Granata, Antonio
Borio e la nostra preziosa Fernanda Maretici. Ma noi, a nostra volta, ci
muovevamo, e quanti viaggi fatti, da soli in terza classe, dormendo in treno o
nelle stazioni, per non dare il nome agli alberghi. Non è possibile dire tutti
i collegamenti stabiliti da Bari a Milano, da Vicenza a Bologna, a Pisa, ad
Arezzo, a Firenze, a Roma, a Napoli. Ma tralasciando i più e quelli accostati
nelle loro sedi, vi dirò soltanto pochi nomi di persone venute a Perugia che
ebbero contatti di antifascisti, e alcune persone più volte: Calamandrei, La
Malfa, Banfi, Luporini, De Ruggiero, Tommaso Fiore, Vittore Fiore, Francesco
Flora, Nina Ruffini, Concetto Marchesi, Manara Valgimigli, Alicata (Ingrao lo
vidi ad Assisi e a Roma), Corona, Enrico Niccolini, Mentasti, Ragghianti,
Cesare Gnudi, Mario Spinella, Gianni Miniati, Federico Comandini, Luigi Russo,
Pietro Pancrazi, Edmondo Marcucci, Carlo Salani, Ranuccio Bianchi Bandinelli,
Umberto Morra, Renato Guttuso, Gianfranco Contini, Gianni Guaita, Luigi
Salvatorelli, Guido Calogero, Norberto Bobbio, Tristano Codignola, Antonio
Russi, Claudio Varese. Quel tal [Rocco] Cutrì martirizzatore di [Mario]
Santucci e di altri, promosso in questi ultimi anni per i suoi indubbi meriti
davanti a Cristo martirizzato dalla polizia imperialistica romana, non sembra
che avesse poi un’intelligenza pari allo zelo, se gli era sfuggito tanto lavoro,
che redimeva Perugia di glorie fasciste, avventizie e non volute. Nei viaggi
vedevamo io o i miei amici, Benedetto Croce, Leone Ginzburg, Ernesto Bonaiuti,
Enzo Enriques, Piero Martinetti, Adolfo Omodeo e a poco a poco quasi tutte le
personalità antifasciste rimaste in Italia. Il nostro lavoro a Perugia non era soltanto di stabilire
collegamenti. Fu a Perugia che si costituì forse il primo Comitato di
rappresentanti di diverse correnti antifasciste, e fu proprio nello studio di
Alfredo Abatini, incrollabile coscienza di antifascista, che avvenivano le
riunioni, sotto il grande ritratto di Giuseppe Mazzini, di quel Mazzini che
ottanta anni prima doveva essere un punto di partenza per l’Italia e invece era
ancora un punto di arrivo. E Carlo Vischia era con noi. Fu da Catanelli che si costituì un commercio librario, che
serviva a raccogliere e diffondere libri non conformisti e a dare un pane al
mio caro, serissimo scolaro Primo Ciabatti. Ho ricordato Ciabatti, e perché non
ricordare, tra i miei scolari di lezioni, [Enzo] il figlio di [Emidio]
Comparozzi, generoso e affettuoso, morto combattendo, Riccardo Tenerini, Ilvano
Rasimelli, già carissimo amico nella devozione per la nostra città? che poi mi
avvicinò a Francesco Innamorati e Franco Mencaroni. La via della potenza, della
sopraffazione, del colonialismo, dell’imperialismo? Non questo pensavamo nella
Resistenza. A chiunque tentasse di fondare un impero oggi nel mondo, noi
da questa Italia, da questi palazzi antichi, da questa piazza dove parlò San
Francesco, diremo che non si può tornare indietro, e che i grandi mezzi tecnici
e le immense moltitudini non possono essere asserviti a ciò che è
insufficiente, e distrugge le più alte ragioni della vita. Ma potenza di mezzi
tecnici e centinaia di milioni di persone saranno al servizio di quel mondo
veramente nuovo di apertura religiosa e sociale per tutti, libero e giusto per
tutti, come lo abbiamo abbozzato nei vent’anni della Resistenza, e come lo
continuiamo a concretare, perché o cari concittadini, la Resistenza continua. ALDO CAPITINI Note (1) Archivio di Stato di Perugia (d’ora in poi AS PG),
Prefettura di Perugia, Archivio di Gabinetto, fasc. 2892, «Celebrazioni
Decennale della Liberazione, 1955». (2) AS PG, Programma delle celebrazioni del Decennale
della Liberazione, Perugia, 20 aprile 1955; AS PG, Manifesto delle
celebrazioni del Decennale della Liberazione, Marsciano, 22 aprile 1955. A
Perugia le celebrazioni si svolsero il 24 aprile, oratore ufficiale fu sempre
l’avvocato Raffaello Monteneri, presidente del Comitato di liberazione
nazionale di Perugia, che tenne un discorso al teatro Morlacchi, mentre il
giorno successivo a Marsciano condivise il palco del teatro Concordia con Aldo
Capitini. (3) Si fa riferimento al governo a guida socialista del
sindaco Ettore Franceschini. Si veda Ettore Franceschini Sindaco di Perugia
1920-1921, Atti del convegno «Riflessioni nell’80° anniversario», Perugia
Palazzo dei Priori, 13 dicembre 2000, Quaderni storici del Comune di Perugia,
Comune di Perugia, 2002. (4) Luce era figlia di Robert Einstein, cugino primo del più
celebre Albert. Per qualche anno visse nei dintorni di Perugia poiché il padre
aveva acquistato la Tenuta di Monte Malbe (Corciano). Nel 1937, la famiglia si
trasferì a Rignano sull’Arno nella Fattoria del Focardo, occupata tra il
1943-44 dai nazisti. Durante l’estate del ’44, con l’avanzare delle truppe
alleate, Robert fu convinto a nascondersi nei boschi circostanti, mentre la
moglie Cesarina, le figlie Luce e Anna Maria e le nipoti Lorenza e Paola
Mazzetti, ritenendosi non in pericolo, rimasero nella villa. È qui che il 3
agosto 1944 i nazisti uccisero per rappresaglia Cesarina assieme a Luce e Anna
Maria, risparmiando le gemelle Mazzetti. La vicenda è stata ricostruita da
Lorenza nel libro Il cielo cade, Palermo, Sellerio, 1961. (5) L’interesse pedagogico di Capitini si incontra con le
disposizioni governative che sollecitavano la partecipazione degli studenti e
questo, assieme alla data di stesura del 24 aprile, fa ipotizzare che fosse
destinato a un’occasione inserita nel contesto delle celebrazioni del
decennale. (6) Ciabatti e Tenerini si conobbero a Gubbio dove erano
ospitati in un collegio per orfani. A Perugia, Capitini aiutò entrambi nella
preparazione agli esami per il conseguimento del diploma magistrale. Impegnati
nell’antifascismo, furono coraggiosi partigiani. Ciabatti fu ucciso durante la
cattura da parte dei tedeschi. Il loro ricordo è presente nel volume di Aldo
Capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani, Célèbes, 1966, pp. 219-225
(una nuova edizione sarà presentata dal Ponte Editore di Firenze nel 2018).
Risponde alla necessità di conoscere sia personaggi dimenticati sia quelli noti
e meno noti, protagonisti della Resistenza umbra, il sito di cui si consiglia
la consultazione: http://www.antifascismoumbro.it/, realizzato dall’Istituto
per la Storia dell’Umbria contemporanea. (7) A completare la ricostruzione del racconto di quegli
anni contribuiscono gli scritti dell’amico di una vita Walter Binni che,
accostati a quelli di Capitini, si completano a vicenda: W. Binni, Ricordo
di Aldo Capitini nel secondo anniversario della morte e L’antifascismo a
Perugia prima della Resistenza recentemente ripubblicati in La
tramontana a Porta Sole (Firenze, Il Ponte Editore-Fondo Walter Binni,
2017), come anche: W. Binni, Antifascismo e Resistenza nella provincia di
Perugia, Perugia 1975, pp. 39-42. (8) AS PG, Questura di Perugia, Schedati, b. 12, fasc. 21.
Le carte sono state pubblicate a cura di Clara Cutini, Aldo Capitini: uno
schedato politico, Perugia, Editoriale Umbra, 1988. Capitini, anche dopo la
caduta del fascismo, continuò a destare “interesse” da parte degli organi di
Polizia che continuarono a sorvegliarlo, fino all’ultimo: il 29 ottobre 1969,
la Questura di Perugia comunica alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza,
la morte avvenuta dieci giorni prima. (9) Fu presidente dell’Istituto e si rimanda al testo
introduttivo al volume Filosofi del dissenso: il Reale istituto di studi
filosofici a Perugia dal 1941 al 1943, a cura di E. Mirri e L. Conti;
introduzione di A. Montesperelli, Foligno, Editoriale Umbra, 1986. (10) AS PG, Aldo Capitini, Scritti, pubblicazioni,
appunti, Note di antifascismo nazionale e perugino, b. 159, fasc. 467;
Ibidem, Antifascismo dei giovani, in «La voce della scuola democratica»,
quindicinale di cultura e problemi della scuola, b. 159, fasc. 468; Ibidem, Sull’antifascismo
dal 1932 al 1943, b. 159, fasc. 470. (11) Per l’edizione del documento si è tenuto conto delle
correzioni e delle integrazioni apportate dal Capitini e si è operata la scelta
di omettere le parti da lui depennate. Fra parentesi quadre sono state inserite
piccole integrazioni e, accanto al cognome, il nome di persone, note perlopiù a
livello regionale. (12) Con queste parole Capitini chiude il testo autografo e
inedito dedicato alla Resistenza, che qui si pubblica: AS PG, Aldo Capitini, Scritti,
pubblicazioni, appunti, «La Resistenza italiana, A Perugia, 24 aprile
1955», b. 159, fasc. 465, cc. 7. (13) Nel testo, per puro lapsus, scrive 1955. (14) L’orologiaio socialista Gaetano Stivalini rimase
ucciso, colpito da una pallottola in corso Vannucci, il 23 marzo 1921 durante
una spedizione fascista alla quale si unirono fascisti provenienti dalla vicina
Toscana. Questa, assieme ad altre violente manifestazioni, portò alle
dimissioni del sindaco Franceschini e alla fine della stagione delle
Amministrazioni rosse, come ricordato da Franco Bozzi, Ettore Franceschini
Sindaco di Perugia 1920-1921, Atti del convegno «Riflessioni nell’80°
anniversario», Perugia Palazzo dei Priori, 13 dicembre 2000, Quaderni
storici del Comune di Perugia, Comune di Perugia, 2002. (15) Segue un paragrafo, depennato da Capitini e che qui si
trascrive: «Se non piacque l’ordine che il socialismo avrebbe portato, se non
si avvertì subito il male che c’era nel fascismo, grave responsabilità pesa su
chi ha avuto in mano l’educazione degli italiani e non li ha portati al punto
di esser capaci di eliminare certi veleni dal proprio organismo in modo rapido
e definitivo». (16) È il primo di una lunga schiera di persone di diversa
estrazione sociale, e differente per formazione e tendenza politica, a
testimoniare il variegato numero di antifascisti umbri e non che stabilirono
contatti con Capitini negli anni della Resistenza e per i quali si rimanda alla
pagina: http://www.antifascismoumbro.it; agli scritti di W. Binni. (17) L’episodio è ricordato, fra gli altri, da Walter Binni.
Nel ’41 comparvero, sui muri in centro e a Porta Pesa, delle scritte contro
Mussolini e la guerra. Fra gli arrestati vi fu il benzinaio comunista Mario
Santucci, che per sfuggire alle torture del questore Rocco Cutrì, si lanciò
dalla finestra della Questura.
a cura di Anna Alberti
|