16/07/2024
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Il solitario nella torre
Rimane fino alla fine un “solitario nella torre”, non quella “d’avorio” lontana da tutti e da tutti inaccessibile, ma quella, ormai metaforica, rappresentata dalla torre campanaria del Palazzo del Comune


Molti quest’anno scrivono e parlano di Aldo Capitini, a cinquant’anni dalla morte. Studiosi per lo più, ma anche discepoli, allievi, amici. Ne viene un ritratto complesso, come complessa era la personalità di Capitini. Emergono le sue tante nature, quella di filosofo e poi quelle di militante politico, di religioso, di poeta, di pedagogo. Nessuna prevale sulle altre, perché è un personaggio che è impossibile etichettare, connotare a senso unico, liquidare o esaltare con una battuta o uno slogan. Eppure c’è una sintesi della sua personalità ed è nel titolo di un articolo pubblicato su L’Espresso, a firma di Geno Pampaloni: Il solitario nella torre.
Lo stesso Capitini si poneva domande sulla sua solitudine politica. Denunciava a se stesso, più che agli altri, la sua insignificanza politica a partire dal 1944, nonostante il rifiuto della tessera del Pnf e la conseguente perdita del posto di segretario alla Normale di Pisa, il suo essere al centro di una cospirazione antifascista intransigente e autorevole, sempre mite e non violenta, ma irriducibile, l’aver proposto una riforma del sistema politico, tramite il liberalsocialismo (“massime socializzazioni nel campo economico e massima libertà nel campo spirituale e culturale”), che si poneva l’obbiettivo di sostituire a uno Stato cattolico-borghese uno Stato intellettual-popolare, l’aver promosso uno dei più significativi tentativi di ricerca di forme nuove di democrazia diretta, i Centri di Orientamento Sociale (Cos), e molto altro.
Il molto altro è l’essere stato guida e ispiratore di tanti giovani durante il fascismo e nell’Italia repubblicana, di avere teorizzato il controllo dal basso e il potere di tutti, di aver lavorato per la nonviolenza, per l’obiezione di coscienza, per la pace, per il rifiuto totale della guerra, di praticare una religione aperta, una nuova dimensione religiosa, staccata da quella tradizionale.
Ma la solitudine è anche esistenziale, sin da giovane, dovuta ad uno studio intenso ed appassionato, che lo porta ad affiancare la frequentazione della Scuola Tecnica prima e dell’Istituto tecnico per ragionieri poi con lo studio autodidatta della grammatica e della sintassi latina e greca e con la lettura di moltissimi testi classici e biblici. Fino a patirne nel fisico, esaurendo le risorse di un corpo gracile, tormentato dall’insonnia, umiliato dal ricorso alle medicine, diverso e lontano da un mondo che esalta altri valori e soddisfa altre aspettative.
Il pensiero unico del fascismo, l’aspetto totalizzante dello stato mussoliniano, l’obbligo alla omologazione e al conformismo, l’impossibilità della critica e del dissenso, rendono più acuta l’estraneità culturale e sociale di Capitini. Ormai gli amici si contano sulle dita di una mano, soprattutto dopo il rifiuto di prendere la tessera del Partito Nazionale Fascista e la sua espulsione dalla Normale di Pisa voluta da Giovanni Gentile.
La scelta vegetariana, il rifiuto di formarsi una propria famiglia, il non dichiararsi più cattolico, aggiungono elementi di totale e radicale diversità.
La solitudine è pesante, non solo sul piano umano, ma su quello culturale e politico, Ma questo non gli impedisce di avere un quadro di insieme, grazie all’acquisizione di alcuni principii generali, che coltiva con “pochi e intelligentissimi amici” a Perugia prima e poi in Italia, soprattutto a Firenze e a Roma. Qui l’elenco è invece lungo, coglie tutta l’intellighenzia italiana, quella non sottomessa né compiacente al regime o quella che non è in galera o in esilio, e quelle frequentazioni sono di stimolo, di arricchimento culturale, di sprovincializzazione e, molto probabilmente, di conforto ad una condizione esistenziale che appare comunque inappagata e inappagante.
Nel 1937, l’anno della morte di Gramsci e dell’assassinio dei Rosselli, in piena controtendenza, Capitini scrive Elementi di una esperienza religiosa, apportando motivi nuovi, altri da quelli allora dominanti nell’ambiente antifascista, quando il fascismo sembrava trionfare e veniva accettato in Italia con generale passività: la non-violenza, la non-menzogna, la non-collaborazione. E’ un’altra scelta di alterità, che conferma la sua solitudine, in questo caso intellettuale e politica. Ma in quello scritto c’è anche un manifesto politico dove alcuni passaggi sono addirittura profetici: il passaggio a larghe unità plurinazionali, la presa in mano collettivistica dell’economia da parte dei lavoratori di tutto il mondo, una federazione di popoli. E’ la premessa del liberalsocialismo. Di fatto sarà un “ambiente di ricerca e di scambio”, una incessante ricerca di collegamenti, specialmente con i giovani, alimentando la loro formazione ideologica con i libri disponibili e con dattiloscritti clandestini. Quello che interessa veramente a Capitini è la formazione di una coscienza, mettendo in secondo piano la decisione violenta o la decisione non violenta. Ma il tema su cui Capitini molto si spende è la libertà, che per lui è un “ principio che debbo calare nella realtà, e come principio è permanente, universale” , fino al punto di individuarla come linea discriminante della sinistra antifascista in tutto il ventennio 1944-1964. L’elaborazione del liberalsocialismo è strettamente integrata con l’attività antifascista e Capitini ne riesce a realizzare un tutt’uno, facendo dell’antifascismo non solo e tanto una testimonianza di alterità, quanto una prefigurazione di un diverso sistema politico, di una diversa entità statale, di una diversa idea di società. Ma non vuole forzature nei tempi e nei modi, difende il suo orientamento socialreligioso, privilegia le logiche di movimento rispetto a quelle di forza politica organizzata. I due manifesti del liberalsocialismo, rispettivamente del 1940 e nel 1941, non hanno Capitini come redattore principale e lo vedono ai margini. E’ un collaboratore, quasi un simpatizzante, ed è ancora solo. Tant’è che non aderirà al Partito d’Azione, nonostante il contributo teorico e pratico di molti liberalsocialisti, ma paradossalmente la sua solitudine, soprattutto dopo i quattro mesi passati in carcere alle Murate di Firenze, gli permette di elaborare uno dei suoi concetti più profondi: la compresenza dei morti e dei viventi.
E’ ormai in grado di elaborare un pensiero originale e organico, assolutamente indipendente, incentrato sui passaggio dall’io a tutti, che gli permette, di accettare, legittimare e sublimare la propria solitudine. Da allora, Liberazione compresa e avvento della Repubblica, per Capitini l’unica scelta possibile è fare in modo che quella resistenza aperta, non violenta, che non si era realizzata nel ventennio fascista, maturasse nel nuovo contesto istituzionale e politico, evitando accuratamente e ripetutamente responsabilità amministrative o legislative, mantenendo una attività politica incessante, riproponendo collegamenti, incontri, manifestazioni pubbliche, iniziative editoriali, in tutta Italia, ma con Perugia e l’Umbria al centro della sua vita, dei suoi affetti, del suo pensiero. Rimane fino alla fine un “solitario nella torre”, non quella “d’avorio” lontana da tutti e da tutti inaccessibile, ma quella, ormai metaforica, rappresentata dalla torre campanaria del Palazzo del Comune, di cui era custode il padre e dove aveva vissuto, in spazi ristretti, con tutta la sua famiglia e dove Capitini aveva una cameretta e uno studiolo, sufficiente per le meditazioni, gli incontri, le lezioni, anche perché da un finestrino lo sguardo spaziava sull’Umbria e gli garantiva quel quadro ampio, quel paesaggio sereno, meditativo, largo, che lui traduceva nell’insieme dell’etica, della poetica e della politica.


Da “l'altrapagina” di novembre 2018 (inserto dedicato ad Aldo Capitini)



Marcello Catanelli

Inserito venerdì 21 dicembre 2018


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