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LA PESTE
Tratto dal foglio informativo dell'associazione Le Vie della Salute n.12 - maggio 2009

“La peste” esce nel 1947 ed è forse il romanzo più celebre del premio nobel Albert Camus, di nazionalità algerina.

Nell’epigrafe Camus cita Daniel Defoe: “E’ ragionevole descrivere una sorta di imprigionamento per mezzo d’un altro quanto descrivere qualsiasi cosa che esiste realmente per mezzo di un’altra che non esiste affatto”.

L’allusione si riferisce all’occupazione dell’Algeria da parte dei francesi che durava da più di cent’anni, tuttavia il romanzo è incentrato sull’esperienza del dolore; l’epidemia di peste che investe la popolazione di Orano è la metafora magistrale ideata da Camus.

“Una maniera facile per far la conoscenza di una città è quella di cercare come vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore. Nella nostra piccola città, forse per effetto del clima, tutto questo si fa insieme, con la stessa aria frenetica e assente: ossia ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini”.

“Ma vi sono città e paesi in cui le persone, di tanto in tanto, hanno il sospetto di altre cose; in generale, questo non ne cambia la vita; soltanto, vi è stato il sospetto, ed è sempre qualcosa di guadagnato. Orano, invece, è apparentemente una città senza sospetti”.

“Un malato ha bisogno di tenerezza, gli piace appoggiarsi su qualcosa, è naturalissimo. Ma a Orano (..) tutto richiede la buona salute. Un malato vi si trova proprio solo”.

“Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli.”

La peste che inizia a uccidere questa gente, si incarna a poco a poco in un concetto astratto e complesso. Essa è “il male” del corpo, dello spirito, del vivere e del morire.

“ Ma quando l’astratto comincia a ucciderti, bisogna ben occuparsi dell’astratto”.

I corpi si ammalano e con essi le anime e le coscienze che, scosse dal contagio, si risvegliano offuscate.

“ Nessuno ride all’infuori degli ubriachi e questi ridono troppo”.

“Tutti i giorni, verso le undici, nelle principali arterie, una parata di giovanotti e di ragazze consente di verificare quella passione di vivere che cresce in seno alle grandi sciagure. Se il contagio si estende, anche la morale si allargherà”.

“In principio, quando credevano che fosse una malattia come le altre, la religione era al posto suo; ma quando hanno veduto ch’era una cosa seria, si sono ricordati dei godimenti”.

In questo contesto opera il dottor Rieux; eroico, nella sua lucida dedizione al mestiere di medico, e voce narrante del romanzo.

“Non so quello che mi aspetta né quello che accadrà, dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi essi rifletteranno e anch’io. Ma il più urgente è guarirli; io li difendo come posso,ecco”.

Egli afferma: “Quello che è vero per i mali di questo mondo è vero anche della peste. Può servire a maturare qualcuno. Ciononostante, quando si vedono la miseria e il dolore che porta, bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste”.

“Non aveva molte illusioni, e la stanchezza gli toglieva quelle che ancora conservasse: sapeva, infatti, che per un periodo di cui non si scorgeva il termine, il suo compito non era di guarire. Il suo compito era diagnosticare”.

Jean Tarrou è invece uno “straniero”, giunto ad Orano poche settimane prima dell’inizio del contagio, che rimane esiliato, intrappolato, nella città appestata.

“Diciamo per semplificare, Rieux, che io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia. Basti dire che io sono come tutti quanti; ma ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in tale stato, e persone che lo sanno e vorrebbero uscirne. Io, ho sempre voluto uscirne”.

“Il sonno degli uomini è più sacro che la vita per gli appestati; non si deve impedire alla brava gente di dormire. Ci vorrebbe del cattivo gusto, e il buon gusto consiste nel non insistere, è cosa che tutti sanno. Il cattivo gusto mi è rimasto in bocca e io non ho cessato d’insistere, ossia di pensarvi”.

“Per questo l’epidemia non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla al suo fianco, Rieux. Io so di scienza certa che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere spinti, in un minuto di distrazione, a respirare sulla faccia dell’altro e a trasmettergli il contagio. Il microbo, è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti; sì, Rieux, essere appestati è molto faticoso; ma è ancor più faticoso non volerlo essere. Per questo tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si trovano un po’ appestati. Ma per questo alcuni che vogliono finire di esserlo, conoscono un culmine di stanchezza, di cui niente li libererà se non la morte”.

Le parole di Tarrou esplicano l’ideologia filosofica di Camus; celebre il suo “Il mito di Sisifo”, eroe mitologico condannato per l’eternità a sospingere un enorme masso in cima a una montagna per poi guardarlo, ancora e ancora, rotolare inesorabilmente a valle. Il Sisifo di Camus, tuttavia, sorride, e accetta la sua sorte continuando quella eterna fatica impostagli dagli dei.

Camus muore nel 1960 in un incidente automobilistico. Combatté per anni contro la tubercolosi che gli infestava i polmoni. Senza negarsi del buon tabacco.  



Citazioni dal racconto di Albert Camus a cura di Valentina del Bello

Inserito mercoledì 29 aprile 2009


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