Tutte le regole della ricostruzione
Nel numero di Carta di questa settimana un articolo che parla della ricostruzione post-terremoto in Umbria
Il paragone che viene fatto di continuo, nel parlare di ricostruzione in Abruzzo, è con l’Irpinia del 1980: sarà forse il destino che si ritrova nel nome ma l’Umbria rimane… in ombra, portando con sé anche quel pezzo di Marche colpito il 26 settembre del 1997. Eppure quanto a modelli di ricostruzione dopo un evento sismico la piccola regione dell’Italia centrale (830mila gli abitanti) qualcosa da dire ne avrebbe, non foss’altro perché nell’arco di 20 anni (nel 1979 in Valnerina, nel 1984 Appennino eugubino gualdese) ci ha dovuto mettere mano tre volte. Certo il colpo più pesante è quello del 26 settembre 1997. La faglia che divide due grandi zolle tettoniche, i cui margini passano lungo l’Appennino, scarica l'energia accumulata in una serie di scosse con due picchi particolarmente violenti, alle 2.33 e - magnitudo 5,8 scala Richter - alle 11.42 del mattino. La conta delle vittime e dei danni parla di 11 morti totali e, solo in Umbria, di 76 comuni colpiti, di cui 33 centri classificati in fascia A, la prima per criticità, dove il 12,6% della popolazione è costretta ad abbandonare le proprie abitazioni, con punte del 77% a Nocera Umbra, 54% a Valtopina, 51% a Sellano. Un totale di 9.285 famiglie, per 22.604 persone sfollate, senza contare i dissesti idrogeologici, i danni gravissimi alle opere pubbliche e alle infrastrutture, ai beni culturali, alle fabbriche e agli esercizi commerciali. È da qui che nascerà il cosiddetto “modello Umbria” che, pur tra criticità e punti deboli, è ad oggi considerato un esempio di “buona” ricostruzione, sviluppato a partire dalle parole chiave decentramento, partecipazione e trasparenza. Per quanto riguarda i lavori sulle abitazioni, il grosso delle commesse venne affidato ai privati a condizione che ogni euro fosse motivato e rendicontato dal pubblico. Quindi da un lato Governo, Regione e Comuni, dall’altro i proprietari degli edifici, i tecnici e le imprese di costruzione. Come spiega Bruno Bracalente, all’epoca Presidente della Regione e Commissario straordinario per l’emergenza e l’avvio della ricostruzione, “l’obiettivo fu quello di intervenire subito sugli edifici meno danneggiati per far rientrare, nel minor tempo possibile, i proprietari e poi intervenire attraverso i Pir, Piani integrati di recupero, sui centri più piccoli e sui nuclei storici, in modo da garantirne la specificità e il valore storico-architettonico”. I soldi, ottenuti attraverso dei mutui a carico dello Stato vennero girati dalla Regione ai Comuni, e corrisposti ai proprietari degli immobili, in base al costo di ristrutturazione che doveva includere i miglioramenti antisismici sulle strutture. È qui che entra in gioco il Durc, Documento unico di regolarità contributiva, l'attestazione dell'assolvimento, da parte dell'impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di Inps, Inail e Cassa Edile. “Passata l'emergenza - spiega Ulderico Sbarra, attuale segretario generale Cisl dell'Umbria, 12 anni fa segretario regionale degli edili (Filca-Cisl) - ci siamo subito posti il problema di come arginare l'assalto alla diligenza da parte delle imprese irregolari che, attratte dall'arrivo di fondi pubblici destinati alla ricostruzione privata, si sarebbero riversate nelle zone colpite dal sisma. Questo avrebbe significato il definitivo collasso di un settore che, a livello locale, era già in crisi e, allo stesso tempo, un aumento degli infortuni sul lavoro. Dalla Filca nazionale venne l'idea del Durc, un documento che riuscisse ad unire le attestazioni di regolarità contributiva delle imprese edili, tagliando di fatto fuori dai finanziamenti le ditte irregolari”. Dopo qualche perplessità iniziale degli altri sindacati e dell'Ance, Associazione nazionale costruttori edili, “la nostra proposta fu recepita, anche perché le imprese locali capirono che una maggiore regolarità avrebbe favorito i migliori che non avrebbero sofferto la concorrenza sleale degli irregolari”. L'iter introdotto prevedeva un documento di apertura lavori, quindi un monitoraggio sullo stato di avanzamento delle operazioni (con un primo stralcio del pagamento) e poi il saldo finale vincolato alla valutazione della congruità della mano d'opera utilizzata. “In questo modo – prosegue Sbarra – siamo riusciti anche a tutelare la sicurezza dei lavoratori: non è un caso che nei cantieri della ricostruzione non ci fu un morto e gli infortuni furono molto inferiori alla media. Se si considera la mole di lavoro che ci fu in quegli anni e non si dimentica che a pochi chilometri di distanza in altri cantieri si continuava a morire, si capisce come il Durc sia stato la carta vincente del modello Umbria”. Tanto che, a distanza di oltre 10 anni, ormai il Documento unico regolamenta gli appalti pubblici in tutta Italia e, dal 9 aprile, in Umbria, anche gli appalti privati (determinando, al termine dei lavori, l'assegnazione dell'agibilità e dell'abitabilità). Trasparenza, sicurezza e rapidità: ovviamente la ricostruzione non fu solo questo. Il “modello Umbria”, che nella maggior parte dei casi sembra aver funzionato, non fu infatti alieno da inefficienze e problemi. In primo luogo i comuni, a cui fu chiesto di potenziare gli uffici tecnici per far fronte alle istruttorie, individuare le Unità minime di intervento (Umi) in cui furono divisi i lavori dei Pir, a fronte degli impegni non reagirono tutti alla stessa maniera. Alcuni si mossero velocemente, è il caso di Foligno e Assisi, altri, come Nocera Umbra, vissero la ricostruzione in maniera più problematica. E rispetto ai problemi dei comuni quelli dei privati non furono meno. Molti proprietari, messi di fronte al dilemma della scelta del tecnico e dell’impresa, si scontrarono con la mancanza di oggettivi criteri di valutazione delle aziende. “In alcuni casi i proprietari si sono trovati di fronte a livelli qualitativi assai bassi”, sottolinea Roberto Segatori, docente di Sociologia dei fenomeni politici all'Università di Perugia, nel rapporto “Oltre la ricostruzione”, pubblicato a dieci anni dal sisma dalla Regione Umbria (editori Quattroemme). “Non sono mancati – prosegue Segatori nello stesso documento - specie all’inizio, casi di pseudoimprese, provenienti da fuori regione, le quali ricevuto l’incarico e montati i ponteggi esterni, sono sparite nel giro di una notte dopo aver incassato l’anticipo”. Altro problema fu quello della spartizione di incarichi e commesse da parte di studi tecnici e imprese, con conseguenti ritardi nell’avanzamento e nell’ultimazione dei lavori. Un numero su tutti è quello relativo alla ricostruzione pesante: 111 professionisti su 1.424 si sono occupati di più di 20 progetti ciascuno, andando quindi a gestire ben 3.778 cantieri su 9.405, ovvero il 40,2% di tutto il business. Ritardi furono anche registrati a causa dei contenziosi che sorsero, all'interno dei consorzi creati per gestire la ricostruzione dei Pir, fra i diversi proprietari delle strutture interessate dai lavori. Tra gli aspetti negativi c'è poi, come denunciato da Vincenzo Riommi, assessore regionale alla Ricostruzione, il fatto che “le attività non sono valse a modificare il trend dell'organizzazione produttiva delle imprese edili medie che – ha sottolineato in un'intervista pubblicata da 'il Sole 24 ore' mercoledì 8 aprile - se anche sono uscite dalla ricostruzione più solide finanziariamente, non hanno investito, in maniera adeguata, nella formazione di operai e tecnici specializzati nella ricostruzione post-sismica”. Non sono mancate neppure le inchieste post-sisma, incentrate soprattutto sulla possibile presenza di infiltrazioni malavitose negli appalti della ricostruzione. “Le inchieste che pure ci sono state – racconta Alvaro Fiorucci, vice capo redattore del Tgr Rai dell'Umbria – non hanno però portato a niente. Nel 2001 le procure di Perugia e Spoleto raccolsero fascicoli e documenti sugli appalti pubblici, ma si trattò di acquisizioni che non portarono a notizie di reati o avvii di procedimenti”. Sul fronte dei cantieri privati, “non uscì niente di importante – prosegue Fiorucci – anche se alcune inchieste in ambiti diversi portarono a segnalare elementi collegati alla camorra all'interno degli organici delle piccole imprese che presero subappalti legati alla ricostruzione”. Ad oggi, 12 anni e 7 mesi dopo quel 26 settembre, sono stati 5,3 i miliardi di euro finanziati per gli interventi su opere pubbliche e private, mancano ancora fondi per la ricostruzione delle seconde case inagibili, per alcuni edifici pubblici e per il patrimonio artistico. Il 93% della popolazione umbra colpita è rientrata nelle proprie abitazioni, mentre restano fuori, come dicono i dati dell’Osservatorio per la ricostruzione della Regione dell'Umbria, circa 2 mila persone di cui 919 sistemate in alloggi alternativi, 641 in autonoma sistemazione e 26 ancora nei container. Intanto, la Giunta regionale, in data 25 marzo, ha stanziato finanziamenti per circa 2 milioni di euro, previsti all'interno di un più ampio programma di intervento che destinerà risorse per poco meno di 169 milioni di euro per proseguire i lavori.
Filippo Costantini e Giorgio Vicario
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