La città è una merce e il bersaglio è la tua mente
Se non fai girare i soldi non puoi esistere! Ma riprendersi la Città" non significa cacciare gli "stranieri", né militarizzare il territorio. Riprendersi la Città vuol dire ricominciare a vivere i suoi luoghi collettivi, come i parchi; vuol dire uscire di nuovo per strada, smettere di rifugiarsi nei centri commerciali, nelle case... Significa uscire di sera, riappropriarsi della propria vita...
Da alcuni mesi il Comune di Perugia ha avviato una verifica degli immobili concessi in comodato d'uso ad associazioni e circolo culturali. Negli anni si sono stratificate alcune situazioni in cui sotto l'apparenza di una attività culturale si nascondevano in realtà attività che fanno profitti. Questo ha portato a interrogazioni consiliari, articoli sui giornali, delibere comunali. Con quale risultato? Molte realtà, circoli aggregativi, associazioni di promozione sociale, culturale, ambientale che non effettuano nessuna attività di lucro presenti nei quartieri di Perugia, alcuni da decenni, rischiano di chiudere perché non riusciranno a sostenere l'affitto che il comune pretende per gli spazi che occupano! Il nuovo modello di città-impresa prevede la NON-ESISTENZA di luoghi promotori e produttori di cultura, di socialità, di solidarietà e convivialità a costo zero! Se non fai girare i soldi NON PUOI ESISTERE! Noi, comunità di persone che si ritrova nel Circolo Island, non vogliamo trasformarci né in venditori né in corpi-consumatori! Rifiutiamo il rito consumista che ci riduce a corpi anonimi, sottomessi, da sacrificare sull' altare della città-merce! Noi, la comunità di persone che si ritrova nel Circolo Island, Noi, che questa città l'abbiamo vissuta, amata, occupata e attraversata vogliamo dire la nostra. Chiaramente queste che seguono sono riflessioni parziali, che non descrivono tutto gli aspetti possibili della situazione sociale a Perugia. Quello che ci piacerebbe con questo documento è che si sviluppasse un dibattito che si traduca poi in pratiche e azioni. Città-impresa
Come scriveva Italo Calvino:" Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi." Quando una città è soltanto un luogo di scambio di merci essa diventa una Non-Città. Una destinazione turistica, uno spazio senz'anima dove il consumo è l'unica autorità culturale e il territorio è un incubo occupato da telecamere e polizia. L'idea di città perseguita negli ultimi decenni dal potere politico locale è stata ed è proprio quella di una Non-Città, di un luogo che si limita a connettere spazi attrezzati, per realizzare funzioni legate all'efficienza economica, del potere, del denaro, della merce. Nella Non-Città governa un solo tipo di urbanistica, l'urbanistica della paura e della separazione, dell'agitazione consumista e della militarizzazione del territorio. Nell'epoca della "globalizzazione" non solo le imprese ma anche le città e territori sono in concorrenza e in competizione tra di loro. Le città competono a livello internazionale, nazionale e regionale per attrarre investimenti, turismo, finanziamenti pubblici e privati e mega eventi come l'Expo. Le città cercano di proiettarsi in qualità di protagoniste sul mercato mondiale, entrando in diretta concorrenza tra loro, comportandosi come città-imprese. I metodi di gestione caratteristici del privato, vengono adottati dalle amministrazioni pubbliche e questo produce da un lato la colonizzazione crescente dei sistemi non economici da parte della logica del profitto, e dall'altra la creazione di un benessere urbano, in cui il cliente di riferimento sono le persone come manager, tecnici, gestori finanziari etc. La fabbrica degli eventi sostenuta da Fondazioni, banche, enti locali etc. ha accresciuto la cosiddetta competitività del territorio solo attraverso la creazione di forme di lavoro-precario diffuso, ad alta intensità di conoscenza e a bassa intensità di diritti e reddito. Tutta la pubblicità sulla costruzione di un sistema terziario avanzato, per agganciare il nodo locale ad una rete globale, si è tradotta nel profitto di un élite privilegiata e grigia, disposta a fare affari anche con la mafia. Infatti la Commissione regionale Antimafia dichiara: "è sempre più evidente che l'insidia principale e più diffusa per l'Umbria riguarda il riciclaggio di denaro illecito, un problema che la crisi economica ingigantisce..." Del resto, gli eventi spettacolari da "Umbria Jazz" ad "Eurochocolate", all’”Umbria Water festival" al “Festival del Giornalismo” e la stessa candidatura di "Perugia-Assisi a capitale europea della cultura-2019" non hanno prodotto la sperata rigenerazione promozionale del territorio e relative ricadute economiche. Risultati migliori non ha dato il tentativo, sullo sfondo della "città-impresa", di rigenerare alcuni spazi del centro storico, sulla base di "nuove" forme di consumi centrati su immaginari di vita creativa in comunità ecologiche-raffinate-familiari. La valorizzazione della dimensione comunitaria, è vero, può avere la funzione di leva della competitività economica delle città come racconta la retorica neoliberale, ma questa valorizzazione si rivela fragile e inevitabilmente conflittuale, quando ruota attorno ad un lavoro ancora una volta malpagato o gratuito, comunque precarizzato, seppure creativo, positivo e gratificante. Quella che viene definita "la svolta culturale" nel governo urbano, in sostanza, coincide invece con la gentrificazione di intere aree della città. Attualmente i progetti di "risanamento, rigenerazione" di alcune aree della città di Perugia, vedi l'area Bellocchio-Fontivegge, sperano di riproporre gli stessi criteri di privatizzazione degli spazi dismessi o sospesi (come l'ex mattatoio di Via Palermo), favorendo nuove attività produttive come unico motore di rivitalizzazione sociale e di valorizzazione immobiliare dello spazio. Come sempre con l'obiettivo che tutto questo diventi sinonimo di cittadini con maggiore capacità di spesa. L'apertura di locali di tendenza, boutique alla moda, nuovi uffici in realtà si tradurrà in aumento degli affitti, in dislocamento degli attuali residenti che non potranno sostenere la nuova rendita urbana, migrazione verso spazi più periferici ed economici ovvero in nuovi spazi di segregazione. In sintesi questo è un esempio di ciò che oggi viene definita "rigenerazione urbana": nel quartiere Bellocchio-Fontivegge si ripropone una modalità generale del governo urbano che da un lato giustifica deroghe al piano regolatore, cambi di destinazione d'uso degli immobili, come pratiche di accelerazione della riqualificazione delle "aree degradate"; dall'altro legittima la continuità con lo stile di comportamento aziendale/manageriale delle amministrazioni precedenti, un "ritorno al mercato", cioè a vecchie pratiche predatorie con progetti invadenti di impronta fortemente speculativa, che dominano da più di vent'anni la vita di questa città. In città insomma non succede niente di nuovo, le vecchie amministrazioni e la nuova hanno fatto proprio solo lo stile "imprenditoriale" e sotto il paravento della "rigenerazione delle aree degradate" non si fa che svendere la città agli investitori privati, senza nessun piano strategico. Questa è una delle conseguenze più evidenti delle varie crociate per la sicurezza e la difesa della città che nulla hanno a che fare con i reali tassi di criminalità. Mappe del panico urbano
Sentimenti d'insicurezza, di pericolo, di inquietudine diffusi dai media locali, hanno aperto la strada alla mercificazione di un intero quartiere e alla moltiplicazione di dispositivi di sicurezza, controllo e militarizzazione dello spazio urbano che non hanno mai evitato neppure un furto... La militarizzazione del territorio, in realtà nasconde e promuove l'ideale di una città come aggregato di interessi, unito intorno all'espropriazione dello spazio, delle risorse culturali e artistiche per asservirle alla logica del profitto ma questo non centra nulla con la sicurezza dei cittadini. Interi quartieri della città vengono associati ad arte al senso di insicurezza e paura provocato dalla microcriminalità presentata come dilagante e spietata, anche se i dati ufficiali indicano una decrescita dei delitti più gravi. La paura è sempre a portata di mano. La paura domina il discorso sulla città, promuove rimedi semplicistici nella forma del più "legge e ordine", del più polizia nelle strade, più disgraziati in galera e orienta di conseguenza il progetto dello spazio pubblico e dei quartieri. Chi gestisce la paura governa la città, i suoi progetti urbani, le sue politiche sociali. Il “disordine”, reale o immaginario, viene imputato all'eterogeneità multietnica e multiculturale, a tutta quell'umanità socialmente marginale che minerebbe la coesistenza negli spazi condivisi di strade e quartieri. Elettori ed eletti, si sentono minacciati, avrebbero la possibilità di perseguire politiche per combattere la povertà, gestire il conflitto etnico, integrare tutti; invece scelgono di comprarsi la protezione, di incentivare il giustizialismo e l'industria della sicurezza privata. L'economia capitalistica produce ordinariamente precarietà nel lavoro e nelle vite ma il popolo non trova niente di meglio che prendersela con gli stranieri, i diversi, i poveri. Quando il dito indica la luna, gli sciocchi guardano il dito... La paura diffusa dall'informazione legittima crescenti misure di polizia e sorveglianza, rimodella il paesaggio fisico della città, cambia le abitazioni, i percorsi quotidiani, i gesti e le abitudini degli individui. La stampa locale, ogni giorno, crea ed alimenta pregiudizi e stereotipi etichettando interi gruppi sociali come pericolosi, da tenere a distanza. Raccontano e mostrano ossessivamente immagini di "degrado urbano", sporcizia, disordine, microcriminalità violenta nelle strade e nei quartieri mentre reclamano il diritto ad una città sana e pulita, invocano l'intervento della polizia, poi delle istituzioni e infine degli urbanisti. Con un occhio rivolto al mercato e al turismo, essi chiedono di riorganizzare questi spazi in luoghi di consumo raffinato, ambienti dove regna la legge, dove la rete di telecamere di sorveglianza arriva ovunque, dove gli "indesiderabili" sono tenuti alla larga. A vantaggio di chi si realizzano queste mappe urbane del panico? Di chi è la città? Quali gruppi traggono beneficio da questa economia dello spavento? Ovviamente ai media locali non interessa cercare una risposta a simili domande. Si limitano ad alimentare quella politica della paura che fa crescere ansie, rabbie e angosce mentre rifiutano di impegnarsi per superarle costituendosi come luogo di discussione e di costruzione di soluzioni condivise che non siano la repressione o la discriminazione. Ad esempio sulla stampa locale gli immigrati vengono presentati come individui a metà, forza-lavoro ma non persone, gente col permesso di soggiorno e diritti limitati, stranieri da controllare, contenere e reprimere, aiutare o espellere. Al tempo stesso, viene mantenuto un totale silenzio sul fatto che questa città, e questo paese, ha bisogno degli immigrati e del loro lavoro. I media cittadini, fiancheggiati dalla propaganda neofascista e di politici alla Salvini, non si fanno scrupoli nel servirsi di episodi di cronaca per alimentare quel terrore dell'Altro che pianifica la città a favore delle élite dominanti. La paura è diventata un grande affare. Un sistema mediatico politico la genera per indurre bisogni che il mercato si incaricherà di soddisfare a caro prezzo. Vendere prodotti contro la paura oggi è un vero business. Le sue cause diventano sempre più aleatorie ed infatti si parla di "tutela della paura percepita". Le paure apprese nascono dalle esperienze dirette che ogni individuo ha vissuto e registrato come rischiose. Questo tipo di paure possono essere prodotte anche attraverso l'osservazione, il racconto, le immagini dei notiziari televisivi, ecc. Allora la distinzione tra paure vere e paure immaginarie, tra minacce reali e apparenti, tra sensazioni di rischio legittime e ingiustificate, diventa una questione complicata. Molto spesso le nostre paure individuali e collettive sono un intreccio tra verità e fantasia. Ad esempio, gran parte della paura della criminalità in ambito urbano è ingiustificata se si tiene conto dei reali tassi di delinquenza. La paura del crimine non dipende dal numero dei reati commessi ogni anno ma piuttosto dall'eventualità che essi si verifichino e dalla presenza, nella propria zona, dei cosiddetti "indicatori d'inciviltà", presenza visibile di spacciatori, tossicodipendenti, prostitute, atti di vandalismo. Infatti vi può essere un livello di criminalità fisiologico o basso e contemporaneamente un senso di insicurezza e di paura estremamente alto. La gente non esce di casa la sera per evitare un rischio potenziale, nella maggioranza dei casi concretamente scarso, di diventare vittima del crimine. La percezione e la sensazione popolare di preoccupazione è sempre più in relazione con l'allarmismo, le esasperazioni e le distorsioni diffuse dai media locali, che con i reali livelli di criminalità che affliggono la città. Problemi di insicurezza esistono, sono reali, ma riguardano una condizione diffusa di precarietà sociale ed economica, di maggiore rischio di impoverimento. Quando la società, il mondo del lavoro cambiano, come è accaduto negli ultimi decenni, niente è più come prima. Cresce il senso di disorientamento e di smarrimento. Chi ha un lavoro teme di perderlo, chi non c'è l'ha non riesce a trovarlo. Disoccupazione, lavoro irregolare e nuove povertà crescono ed insieme cresce una visione incerta e confusa della propria posizione sociale per molte fasce della popolazione. Per i giornalisti ed i politici locali invece tutto il male viene dai comportamenti incivili, dai reati minori, da chi chiede l'elemosina per strada, da chi lava i vetri ai semafori, da prostitute, ubriachi, senza fissa dimora e tossicodipendenti che stazionano in luoghi pubblici e da chi fa scritte o graffiti sui muri. Del resto né ai politici né ai giornalisti fa comodo parlare della ristrutturazione economica, della "crisi", che ha tolto ai poveri, ai lavoratori, ai pensionati per dare ai ricchi; che ha smantellato lo Stato sociale riducendo in modo violento la possibilità per chi si trova in condizioni di disagio o esclusione di poter migliorare la propria situazione. A giornalisti e politici sembra interessare solo un obiettivo: proteggere i "cittadini perbene" dai criminali. Quello di dare, ad una classe media in via di estinzione, almeno l'impressione di non vivere in una città degradata. Una delle usanze più diffuse ed antiche per "liberarsi dal Male", comunque esso si manifesti, è quella di trasferirlo simbolicamente su un altro essere vivente, umano, animale, etc., e di mettere in moto la dinamica del capro espiatorio. L'esempio più comune è quello dello straniero intorno al quale si sviluppano le angosce infantili della paura dell’estraneo, i pregiudizi e le credenze razziste. Territori da abitare, mondi da costruire
Sono divenute strutturalmente vacillanti la famiglia, la comunità, il vicinato, il quartiere, la città stessa nella quale gruppi di popolazione differenziati in base a criteri di età, genere, classe, dis/abilità, etnicità, preferenze sessuali, cultura, religione hanno rivendicazioni diverse e lontane da vecchie modalità di aggregazione confortevoli e automatiche. Nella città, esistono problemi di una complessità tale che non potranno essere risolti né dalle istituzioni, né dal mercato e neppure dalle tradizionali forme di conflitto basate sulla protesta e sulla rivendicazione. Probabilmente c'è bisogno di tornare ad esperienze di partecipazione ed auto-organizzazione sociale, per trasformare una città che è governata contro di noi, contro i nostri bisogni. Governata contro di noi, spesso, con la nostra complicità, quando ci adattiamo alle inefficienze del sistema sanitario, di quello dei trasporti, di quello scolastico, o di quello del Welfare in generale nelle pratiche quotidiane individuali. Si tratta probabilmente di riappropriarsi e di reinventare collettivamente gli spazi urbani, trasformandoli in incubatori di interazione sociale. Ma esiste realmente una domanda di condivisione dello spazio-tempo urbano, liberato dal profitto e riconsegnato, grazie alla partecipazione degli abitanti e alla loro azione, al suo valore umano? Come ha scritto D. Harvey, "la questione di quale città vogliamo non può essere separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita desideriamo, che valori estetici riteniamo nostri." Da questo punto di vista una città “merce-mercato-impresa” in che cosa ci trasformerà? In "clienti" della merce città? In firmatari di petizioni neofasciste per "l'espulsione degli immigrati clandestini"? Le città fatte solo per far circolare merci e denaro e per organizzare il consumo massificato, non possono che ridurre le persone a fantasmi che hanno paura della propria ombra. "Riprendersi la Città" non significa cacciare gli "stranieri", né militarizzare il territorio. Riprendersi la Città vuol dire ricominciare a vivere i suoi luoghi collettivi, come i parchi; vuol dire uscire di nuovo per strada, smettere di rifugiarsi nei centri commerciali, nelle case... Significa uscire di sera, riappropriarsi della propria vita... Il circolo Arci Island è uno spazio che attraverso una molteplicità di attività ed eventi culturali ha la finalità di promuovere la democrazia di base secondo un'etica che considera ogni individuo un soggetto autonomo. Il circolo è attivo nel quartiere di Madonna Alta ed aperto all'intera città dal 2001. Le sue attività di carattere culturale e ricreativo si articolano come luogo di auto-formazione sociale ad un'etica della responsabilità individuale e dell'autogoverno collettivo. Le istanze, i bisogni, le pratiche, le idee che hanno dato vita allo spazio nel corso di questi anni hanno anche tentato, nei propri limiti, di esprimere un’idea di città che non è quella degli ipermercati, degli eventi spettacolari, dei fast food, dei cinema multisala, di un prodotto da vendere sul mercato turistico internazionale. Fuori dal modello di una città tutta concentrata e schiacciata sulla mitologia del centro storico, tutte le attività del Circolo Island, si sono svolte e si svolgono all'interno del quartiere di Madonna Alta. Un quartiere nel quale, parliamo per esperienza, cresce l'isolamento, il disagio sociale, l'ansia da insicurezza e il potere di chi strumentalizza tutto questo per fini politici. Il Circolo Island, sulla base dell'autofinanziamento e dell'autogestione, ha promosso e continua a promuovere tutte le iniziative che possono permettere di vivere il quartiere come luogo collettivo, con tutte le contraddizioni che ne conseguono. I vuoti sono tanti e sicuramente non è dovere del governo o dei padroni rendere desiderabile la lotta e il cambiamento alle genti. L'apatia e l'alienazione nella quale ci vorrebbero rinchiusi, è forse il primo nemico da combattere e risiede semplicemente dentro ognuno di noi. Lamentarsi delle pessime condizioni di vita che ci vengono offerte non basta, perché prima o poi ci rassegneremo al fatto che l'alternativa non esiste. Ad ogni ingiustizia che ci viene imposta che non trova una risposta ne seguirà una più grave e così via, finché non ci avranno tolto tutto. Invece, è ora che qualcosa ce lo ricominciamo a prendere, partendo dalle relazioni con chi ci sta vicino e vive le nostre medesime condizioni di vita; relazioni, a cui ci hanno disabituato con il sentimento della paura del diverso e con la convinzione che davanti ad uno schermo possiamo essere in connessione con tutto il mondo, mentre siamo semplicemente isolati nella nostra bolla di solitudine. Uscire da questa bolla significa connettersi, contaminarsi, mettere in relazione esperienze diverse. Di fronte all'egemonia della paura del diverso e del dividere le comunità per governarle meglio, la risposta deve essere quella in grado di creare una potenza collettiva, un modo diverso di abitare il mondo, attraverso un modello culturale dal basso. Una comunità che si pone come obiettivo quello di costruire un modo diverso di vivere e di abitare un territorio, se si pone in un orizzonte di allargamento, non può che essere conflittuale, perché in rottura con il modello culturale egemone. La città si espande, si trasforma. Il capitalismo si ristruttura e ogni cosa al suo interno viene trasformata se non è capace di dotarsi di mezzi materiali, di un'organizzazione pratica di difesa e attacco e di una produzione infinita di saperi e immaginario capace di delineare una geografia diversa in grado di rendere un territorio impenetrabile da qualunque strategia di recupero governativo. I nostri mezzi, la nostra produzione di saperi e immaginario e la nostra forza difensiva e offensiva devono agire in modo armonioso. Abitare e lottare in un territorio vuol dire vivere già un mondo nuovo.
Circolo Island Perugia
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