La partenza avveniva nel mese di marzo, quando il disgelo aveva liberato i passi che nelle nostre montagne erano come porte verso i paesi dell’Europa centrale. Andavano a piedi, con gli arnesi del mestiere dentro un sacco appeso alle spalle con due pezzi di corda, o sulla carriola che spingevano con l’indispensabile. Così i nostri montanari si avviavano verso la Prussia, l’Austria o ola Boemia a lavorare in cambio di marchi o corone che davano poi la possibilità di svernare in famiglia. Lungo i percorsi che di anno in anno venivano tramandati ai più giovani, avevano i loro luoghi di sosta cadenzati a giornate di cammino; dormivano nelle stalle o nei fienili dei contadini che offrivano ospitalità gratuita. Ricambiavano con qualche lavoretto. Chi poteva, a Trento, dal 1867, saliva sul treno dopo aver acquistato il biglietto secondo le possibilità del portamonete. Come passaporto, tutti avevano in tasca il certificato di battesimo. Per la lingua si arrangiavano, e bene, con l’antico linguaggio che ancora si parlava tra queste montagne; chi arrivava in Boemia o nel Wuppertal aveva maggiore probabilità di guadagno, o di scegliere il lavoro che più gli si confaceva. Ancora oggi, non certo tra i giovani, è ricordata una frase di questi migranti stagionali. Uno che era ritornato a casa dopo otto mesi di lavoro, a chi gli chiedeva dove quell’anno si era fermato, aveva risposto: “Sono stato tre marchi al di là di Ulm”. Spiegò che giunto in una stazione e ritrovandosi ancora in tasca tre marchi, li aveva spesi tutti per un biglietto che lo portasse il più possibile verso l’interno, perché, aveva pensato, lì certamente era minore la concorrenza degli stagionali e meglio poteva scegliere. Tre marchi al di là di Ulm per molti anni volle dire andare lontano, verso un qualsiasi luogo per bene lavorare e più guadagnare. ...
(Mario Rigoni Stern, in “STAGIONI”, Einaudi, 2006, I edizione)