Perugia. Una restaurazione?
A volte anche i nomi e cognomi sono elequenti; e alle famiglie dell'antica oligarchia di cui il nuovo sindaco è rampollo non è sembrato vero. Ricacciati i Wladimiri nelle campagne donde sono venuti sognano il ritorno della egemonia dei ceti professionali e proprietari sull'intero territorio cittadino
(da micropolis, luglio 2014)
Il ballottaggio delle comunali di Perugia e il “ribaltone” che ne è derivato sono stati da subito oggetto di esagerazioni mediatiche. Si è così letta e ascoltata la tiritera di un potere “rosso” che durava, ininterrotto e impermeabile, da settant'anni finalmente abbattuto; e non ci è stata risparmiata neanche la sciatta similitudine con la caduta del muro di Berlino. Qualcuno poi si è premurato di rammentare agli smemorati che questo potere aveva conosciuto una interruzione tra il 1964 e il 1970, anni della alleanza tra Dc e Psi chiamata “centro-sinistra” che teneva all'opposizione il forte partito comunista. C'è di più: in questa città territorialmente estesa e in molti sensi policentrica non c'è mai stato né poteva esserci il potere occhiuto e totalizzante di cui si è favoleggiato: l'amministrazione del Comune è sempre stata frutto di compromessi tra ceti, gruppi sociali, centri di potere. In verità a Perugia, nonostante il grande seguito e la forza elettorale comunista, funzionò per tutto il periodo della cosiddetta Prima Repubblica una conventio ad excludendum per cui il Pci, pur avendo un peso determinante nella pubblica amministrazione, non esprimeva il sindaco. Quel ruolo spettava a un socialista, più spesso proveniente dalle professioni liberali che dal funzionariato politico, generalmente espressione della borghesia urbana di tradizione laico-massonica, ma in grado di garantire anche la parte di tradizione papalina, moderata o conservatrice. Tra i due settori dei ceti dominanti, un mondo piuttosto esclusivo, non c'erano mai state “grandi muraglie”. La Dc, dal canto suo, anche se all'opposizione, non era affatto esclusa dal potere locale, grazie al sostegno del governo nazionale: le banche, le due università, i consorzi agrari, il provveditorato agli studi per esempio erano nella sua orbita di influenza. Questo sistema trovò l'apogeo negli anni Settanta, quando – sulla spinta delle intese romane – fiorirono anche a Perugia accordi programmatici e lottizzazioni degli incarichi. Va aggiunto che l'esclusione del Pci dal governo cittadino negli anni Sessanta non era stata conseguenza meccanica di scelte nazionali. Fino ad allora la base sociale del Pci, il mondo della mezzadria, il proletariato e il popolino urbano, si era contentato delle grandi opzioni ideali e di una amministrazione attenta ai bisogni delle classi subalterne, ma negli anni del “boom economico” questo non bastava più. Insomma c'era stato un ritardo nel leggere le trasformazioni del neocapitalismo, la scomposizione-ricomposizione tra classi e ceti, il mutato rapporto tra città e campagna, il ruolo che veniva assumendo la città nella costituenda Regione. La presa di coscienza fu contestuale ai cambiamenti nel gruppo dirigente e nel quadro attivo del partito. Non mancavano in esso figure che erano diretta espressione del blocco sociale di riferimento, ma avevano ruolo e peso soprattutto alcuni “trasfughi” della borghesia urbana, politicizzatisi a sinistra nel corso della Resistenza o nell'immediato dopoguerra; sul finire degli anni Sessanta, sulla spinta dei movimenti sociali, di operai e studenti soprattutto, funzionò uno dei tipici “rinnovamenti nella continuità” del Pci togliattiano. Così nelle liste comunali e regionali del 1970 come negli organismi del partito e della Cgil venivano valorizzate, seppure con cautela, persone che venivano dalla fabbrica o dal mondo giovanile, mentre cresceva, seppure lentamente, l'influenza nelle sezioni dei gruppi che la disgregazione del mondo contadino produceva: non solo i famosi “metalmezzadri” ma anche i “mezzadri piccoli imprenditori”. Di sicuro questo favorì la riconquista del Comune. Ma più ancora pesò in quell'occasione e successivamente il rinnovamento programmatico. Mandarini ha ragione, quando sul “manifesto” riconosce a quella sinistra il merito di aver elaborato un'idea della città nella nuova Regione: grandi eventi da una parte, diffusione di servizi e centri di aggregazione nelle periferie e nelle frazioni furono due facce di quell'idea. Ma nella costruzione del consenso ancora di più pesò la scelta partecipativa: i comitati di quartieri prima, e poi la loro istituzionalizzazione nelle Circoscrizioni ne furono l'asse, lo strumento attraverso cui gruppi di cittadini riuscivano ad incidere sulle scelte che riguardavano la loro vita. E' vero che la selezione dei dirigenti nel territorio seguiva il criterio della cooptazione paternalistica tipico del Pci, come è vero che le reti partecipative tendevano a degenerare in reti clientelari, ma i passaggi elettorali come la pratica delle periodiche assemblee rendevano in ogni caso inevitabile il confronto del vertice con la base e il coinvolgimento della base nelle scelte. E' in questa fase (anni Settanta – Ottanta) che la chiusa (e talora ottusa) borghesia proprietaria e professionale subisce alcuni scacchi vissuti come umiliazioni. Da una parte la nascita della Regione, lo sviluppo economico, urbanistico e turistico della città, l'ampliarsi delle Università determinano un allargamento della classe dirigente ristretta: grandi professionisti, professori universitari, banchieri, alti burocrati, grandi imprenditori non possono essere più espressione di una chiusa oligarchia impregnata di peruginità, ma i ranghi devono essere rafforzati con persone che vengono da fuori delle antiche mura, dalle frazioni, da altri centri della regione, da fuori regione. I signori della vecchia Perugia prima resistono, poi accettano e integrano i nuovi, anche nelle organizzazioni “riservate”. Mal sopportano invece che al Palazzo dei Priori contino sempre di più persone che vengono dalle periferie e dalle frazioni e che l'organizzazione “circoscrizionale” faccia spesso prevalere le esigenze del contado. La crisi dell'89 travolge il vecchio sistema politico: lo scioglimento del Pci e la legge sull'elezione diretta del sindaco che spoglia di molti poteri i Consigli Comunali a vantaggio dell'esecutivo cambiano il quadro. Nel 1995 il Pds non impone un proprio candidato sindaco alla nascente coalizione del centro-sinistra bipolare: sceglie un professore universitario cattolico di sinistra vicino alla Curia, visto che l'area socialista, screditata da Tangentopoli, si è dissolta; mutatis mutandis Maddoli ha la stessa funzione di rassicurazione che avevano fino ad allora i sindaci socialisti. Solo con Locchi, da sempre legato alle frazioni, si elegge un sindaco postcomunista. Dai Ponti proviene il suo successore Boccali, il cui impegno nel Pci risale alla prima giovinezza, agli anni 80, nel movimento studentesco e nella Fgci. La sua sindacatura completa il processo di ascesa di un ceto politico che proviene dal mondo mezzadrile e operaio, ma che è ormai del tutto snaturato. Non so se Locchi e Boccali si possano considerare eredi del Pci; di certo hanno beneficiato di quella eredità, ma, insieme a tutto il resto del gruppo dirigente, l'hanno dilapidata. Come giornale ci è spesso accaduto di denunciare le magagne del sistema di potere impiantato a Perugia del Pds-Ds-Pd che aveva il suo cuore pulsante nei costruttori e non abbiamo mai taciuto il limite di fondo: la mancanza di una idea della città, mancanza che obbligava a galleggiare su questa o su quella ipotesi di grande opera o trovata propagandistica; forse non abbiamo riflettuto abbastanza sulla crisi verticale della partecipazione. L'ideologia dell'uomo solo al comando, la concezione mediatica del consenso, hanno fatto ritenere prima ai diessini e poi ai piddini che l'abolizione legislativa delle circoscrizioni non fosse una iattura, quanto un'occasione. Piuttosto che pensare a come sostituirle efficacemente, hanno pensato di fare a meno del rapporto con la base elettorale e affidato la cura dei rapporti con periferie e frazioni a consiglieri comunali più o meno formalmente delegati a gestire la rete clientelare. Il clientelismo, peraltro, in tempi di vacche magre per le finanze locali, ha funzionato sempre meno e il malcontento è diventato generale, anche e soprattutto nelle zone rosse. Da mesi prima dalle fatidiche elezioni si parlava del “modello Parma”, si diceva: se Boccali non ce la fa al primo turno, rischia moltissimo. I più pensavano che al ballottaggio non arrivasse la destra ancora legata Berlusconi, ma il candidato grillino. Non è andata così. Nonostante il ridicolo l'11 per cento di Forza Italia e poco più del 20% delle liste coalizzate, la destra, senza alcun merito proprio e solo per i demeriti altrui, ha fatto tombola puntando su un candidato giovane, bene educato e ai più sconosciuto. Romizi è andato con appena 22 mila voti (il 26 %) al secondo turno, nel quale – nonostante il forte calo dei votanti – è passato a 35 mila voti (e al 58 %). Per vincere si è giovato anche dell'apporto di alcune liste civiche come quelle di Barelli e quella di Dramane, utilissime a coprirlo a sinistra, ma anche di un travaso diretto da Boccali che passava da 39 mila a 25 mila voti. Si racconta di giovani che nelle periferie e nel contado, ai Ponti per esempio, persuadevano genitori e nonni a un voto di liberazione e di rinnovamento. Così da Wladimiro Boccali si passa ad Andrea Romizi. A volte anche i nomi e cognomi sono elequenti; e alle famiglie dell'antica oligarchia di cui il nuovo sindaco è rampollo non è sembrato vero. Ricacciati i Wladimiri nelle campagne donde sono venuti sognano il ritorno della egemonia dei ceti professionali e proprietari sull'intero territorio cittadino. La nomina della Giunta con dentro tanta “società civile” dà conferma di siffatti progetti. Non ci sono grandi cambiamenti da fare nella politica: le scelte delle ultime amministrazioni cosiddette di sinistra avevano spesso un segno di destra (penso all'esternalizzazione di attività fondamentali, o all'affidamento ad associazioni private di compiti di assistenza). Un'ipotesi egemonica può peraltro trovare il sostegno delle organizzazioni cattoliche, felici di gestire il passaggio dall'assistenza alla carità, e l'appoggio delle corporazioni, dai medici agli architetti, dai banchieri ai commercianti, per non dire dei notai. In prima linea gli avvocati, incluso quel nocciolo duro di penalisti, la cui potenza è aumentata in parallelo con la criminale economia della droga: difendere e far liberare trafficanti e spacciatori può essere un grande affare. Ce la faranno? Riuscirà questo progetto di durevole egemonia o Perugia diventerà un Comune contendibile a ogni elezione? Le ambizioni sono alte, ma gli ostacoli molti. In ogni caso il blocco della sinistra è ormai scomposto e disfatto e una sua ricostruzione richiede, oltre che tempo, una capacità di analisi e di ideazione che al momento non si vede. Potrebbe tutt'al più risorgere un Pd perugino più leggero e meno radicato, come coalizione di interessi distinta e diversa da quella di Romizi, ma con scarsi rapporti con la sinistra, con i suoi soggetti sociali, storici o potenziali, con i suoi valori.
P.S. Aggiungo, a mo' di vaticinio, una battutaccia sulla cementificazione. Forse Romizi guarderà a gruppi di costruttori diversi che in passato, ingegneri o architetti piuttosto che ex muratori, ma nella sostanza non cambierà nulla. Nonostante Barelli.