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Lettera riformista al Presidente Napolitano

Sto preparando - come mi ero impegnato - un commento sulla direzione del Pd del 19 dicembre, mentre i re magi hanno concluso il loro viaggio da un oriente misterioso, scendendo dai cammelli un dono di inestimabile valore: il discorso di fine anno del presidente Antonio Napolitano. Un discorso a reti unificate, non lo dico per rubare un’espressione quasi burocratica alla tecnologia radiotelevisiva, ma per riferirmi a quell’impalpabile reticolo misto di sentimenti e di preesistenze che fa di una plebe un popolo.

Mentre il Presidente sciorinava le sue parole, semplici, sagge, convincenti, all’altezza della storia, mi passava davanti gli occhi il film di un presepe popolato dai grandi uomini del Sud, antichi vecchi e recenti; di un Sud verso il quale l'Italia e l'Unità d’Italia hanno un debito che ci si ostina a non pagare perlomeno da due secoli e forse tre: mi riferisco al contributo (tributo?) del Sud alla trasformazione della penisola italiana da espressione geografica in nazione moderna. Che non esisterebbe se il Sud fosse rimasto all’opposizione come volevano i lazzaroni del Re, i nostalgici del Sanfedismo, i briganti del cardinale-principe Ruffo di Calabria, gli eredi di Fra Diavolo, e soprattutto gli agrari dei latifondi pugliesi, casertani, siciliani. E i loro eredi, i mafiosi di tutte le famiglie (in)civili e politiche.

Vedo tra i pastori di questo immaginario presepe figure di illuministi e di grandi liberali. Vedo Gaetano Filangieri e Giovan Battista Vico, vedo i grandi intellettuali che vengono dal retroterra di Napoli, Francesco De Sanctis e Guido Dorso dal Molise, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti dalla Basilicata, tutti gli storici del Sud ai quali tanto deve Antonio Gramsci e con lui Emilio Sereni, Giorgio Amendola, Francesco De Martino e gli altri di Cronache Meridionali.

E sempre dalla Basilicata vedo Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta che non aveva l'auto blu e andava dalla sua Tricarico a Napoli con mezzi di fortuna.

Vedo Manlio Rossi Doria, studioso dei problemi delle campagne ma anche fautore di una riforma agraria che se non fosse stata tradita avrebbe riportato dentro la storia la condizione dei contadini del Sud senza dover fare i conti con le mafie. Vedo Ernesto de Martino, che attraverso gli studi antropologici ed etnologici diede una dignità culturale a plebi che prima vivevano solo nelle descrizioni folkloriche di letterati e pittori di maniera.

E poi, sempre per fermarmi a Napoli (non sto seguendo nessun filo logico), vedo Benedetto Croce e il suo cenacolo di Palazzo Filomarino, con i sodali Bertrando Spaventa e Antonio Labriola.  Tra i moderni, sempre a Napoli, vedo gli scienziati della stazione zoologica di Via Caracciolo, i filosofi  dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Palazzo Serra di Cassano.

E vedo, lungo il filo di una tradizione di lotte fatte non di sole jacqueries, i combattenti della repubblica partenopea illuminista, vedo il grande cantante e musicologo Sergio Bruni, scugnizzo delle Quattro giornate, con la sua voce antica portata da gambe rese malferme dalle pallottole dell’occupante germanico. E vedo altri combattenti contro il degrado di Napoli, come Eduardo e Titina De Filippo e soprattutto Totò, principe di non so che cosa ma re incontrastato di una Napoli comica e tragica insieme.

Qui mi fermo per i miei limiti culturali che non mi consentono di andare oltre, ma ce n’è abbastanza per insegnarmi che c'è un pozzo smisurato da cui attingere risorse per la rinascita di una Napoli che l'implacabile rappresentazione del villaggio globale ci ha mostrato sommersa dalle montagne di rifiuti. E con Napoli la rinascita di tutto il Sud, che purtroppo non conosco se non per mete turistiche.

E' a nome di questa eredità che il Presidente Napolitano ha parlato, a reti unificate, a milioni di famiglie italiane, che lo sentivano (e spero lo ascoltavano) dal Sudtirolo agli arcipelaghi siciliani, dalla Sardegna di Antonio Gramsci ai valichi alpini e ai tanti siti dell'emigrazione italiana all'estero, ai militari impegnati da accordi internazionali in paesi che hanno eliminato dal loro vocabolario la parola pace; milioni che hanno sentito e spero ascoltato il suo appello all'unità nazionale, alla ragionevolezza, alla razionalità, al controllo della paura per un futuro che probabilmente sarà buio ma che - a reti unificate - possiamo addomesticare.

Tra chi lo ascoltava c'eravamo anche noi della sinistra, c'ero anch'io a chiedermi se lo incitiamo e lo sosteniamo abbastanza, senza se e senza ma, perché vada avanti. Di punti di riferimento nostri ne abbiamo abbattuti abbastanza. Salviamo almeno il soldato Ryan.

Vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio.

 



Gianni Barro


Inserito martedì 6 gennaio 2009


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