Tutto avvenne nella notte di Capodanno
Una poesiola di Marfrutto, con gli auguri della Tramontana per il nuovo anno
C’era una volta una grande nazione che quanto ad efficienza ed organizzazione praticava tutti i mezzi della scienza. C’erano aerei senza pilota, motori a reazione, cuori artificiali, bombe al neutrone. Gli spazi sconfinati della volta stellata te li potevi ammirare con una passeggiata, volendo anche col biglietto d’andata e ritorno valido per un solo giorno. Ma qui il mio somaro raglia, non lo sentite? che c’è? oh!, già, c'è il risvolto della medaglia! Si dice che la gente, nonostante tutto, non era poi tanto felice e aveva sempre il viso parato a lutto. Vivere in quelle megalopoli costruite giocando a monopoli da poche persone per milioni di abitanti racchiusi in casermoni deliranti portava tutti alla disperazione. La gente dentro di sé soffriva perché con tutto quel progresso tutta quell‘abbondanza ognuno s accorgeva di essere più solo, prigioniero in una stanza. Ognuno pensava solo a se stesso, a far soldi per aver successo, a scalare per primo l’albero della cuccagna infischiandosi della natura e della campagna. E per arrampicarsi ogni mezzo era un diritto: dalla menzogna all’imbroglio alla violenza al delitto. In quelle città mancava persino l’aria. Non c’era persona o un cane o una rosa che non soffrisse di qualche cosa. E non bastavano cure e compresse, le malattie eran per tutti le stesse, malinconia, depressione, problemi di peso e di circolazione. Ogni giorno spuntava un nuovo male più terribile ed incurabile di quello che già imperversava. L’umanità era in coma, trionfavano il robot e l ‘automa.
Inaspettatamente, però, quando sembrava tutto perduto irrimediabilmente, arrivarono i nostri... salvatori, i petali degli ultimi fiori. Essi nacquero in pochi vasi sui balconi di quei palazzoni popolari tipo alveari dove rubando un raggio al sole e un soffio al vento eran riusciti con grande stento a darsi due pennellate di colori. Tutto avvenne nella notte di Capodanno. Disgustati da tutto quel rumore, da tutto quel vuoto interiore, decisero a un tratto di tornare in campagna e fu subito detto e fatto. Rifecero al contrario il viaggio dei loro antenati che se n’erano andati in città poveri ed imbrogliati convinti che bastasse cambiare padrone per cambiar la società.
“Ritorniamo alle radici, riscopriamo i veri amici, la terra sarà nostra e lì sopra costruiremo un modo nuovo di vivere insieme e di volerci bene.” Qui passavano tutto il giorno nei campi e nelle stalle, cuocevano il pane nel forno, bevevano latte di giornata, mangiavano torte uova ortaggi marmellate frutta e formaggi. Coltivavano i campi col sudore con mille cose da fare a tutte l’ore, Non c’eran dischi né televisione, la musica se la facevan da soli la sera cantando d’inverno vicino all’ultimo tizzone. Gli animali non li uccidevano: erano amici, erano soci che davano latte uova e lana, davan la gioia d’una galoppata nei giorni di festa tra le bellezze della foresta. Lavoravano a turno nell’officina e qui costruivano il necessario, arnesi mobili trattori e macchinario. Celebravano insieme la fioritura, la vendemmia, la battitura. I petali dei fiori qui scoprirono la cosa più sensazionale, che il progresso non era un marchingegno sempre più complesso e artificiale, non era un’astronave né il raggio della morte né il calcolo infinitesimale, ma era lo spartirsi con giustizia tra di loro i frutti del lavoro. I bambini crescevano alla scuola della natura, senza il ricatto della bocciatura, aiutavano i grandi a lavorare, stavano ore a parlare e giocare. Lì non c’era vecchiaia, la vita fino all’ultimo scorreva semplice e gaia. E quando un’esistenza si spegneva veniva sepolta nei pubblici giardini, dove tra fiori belli e rari seguitava a parlare coi suoi cari. Questo era il mondo, questa era la vita dei petali dei fiori, ultimi salvatori dell‘umanità. Quanti di voi ci vogliono andare si facciano sotto, l’ultima carrozza partirà a Capodanno alle otto.