14/08/2024
direttore Renzo Zuccherini

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Salute e sanità come beni comuni: per un nuovo sistema sanitario
testo prodotto a partire dalla redazione di un documento di avvio, rivisto, integrato e largamente arricchito in base al lavoro dei seminari tenuti nel 2009 (29 ottobre, 24 novembre, 21 dicembre) e nel 2010 (14 gennaio, 13 maggio) e alle osservazioni e i materiali via via pervenuti dai partecipanti, a cura di Tullio Seppilli - no title specified                                                                                                                                                                            Versione PDF

1. La questione dei beni comuni
Nel dibattito scientifico e politico e anche in più ampi settori dell’opinione pubblica si è venuta profilando e precisando in questi ultimi anni – in contrasto con le dilaganti pressioni verso l’individualismo, il “privato” e il liberismo economico, e a fronte delle evidenti diseguaglianze e dei veri e propri disastri che ne sono conseguiti – l’idea che esistano “beni” di cui tutti hanno diritto di usufruire, indipendentemente da ogni condizione di reddito, di radici etniche e di opzioni ideologiche: l’idea e l’esigenza, dunque, che alcuni beni essenziali per la vita dell’uomo debbano sfuggire alla logica della proprietà privata, del mercato  e del profitto e vadano comunque tutelati dalla legge come beni collettivamente controllati e potenzialmente disponibili “per tutti”, di interesse di tutti, siano cioè beni comuni.
Certo, il sogno della “comunità dei beni” attraversa tutta la storia umana e si è tradotto spesso in drammatiche rivendicazioni e sanguinose repressioni ma anche in multiformi e talora durevoli esperienze1.
Ma in questi ultimi anni, appunto, in seguito al manifestarsi, anche a livello planetario, di sempre più gravi e pericolose sperequazioni, la questione dei beni comuni è tornata prepotentemente alla ribalta, si sono meglio precisati il suo significato e la sua portata e, soprattutto, ne sono stati con più esattezza definiti i principali terreni, le più urgenti priorità, i necessari presupposti economici e culturali, le forme politiche e giuridiche di traduzione operativa. In merito esiste ormai una cospicua pubblicistica scientifica – prodotta da economisti, antropologi e altri scienziati sociali, da filosofi e da naturalisti, da giuristi e da politologi2 –, sono state avanzate precise proposte operative, vanno costituendosi importanti movimenti collettivi.
Il principale terreno in cui la “questione dei beni comuni” ha raggiunto una evidente maturazione culturale e si è tradotta un po’ ovunque nel mondo in numerose iniziative e in forme aperte di organizzazione rivendicativa, è quello di un più egualitario accesso all’acqua disponibile e di un deciso superamento delle attuali tendenze a ulteriori forme di privatizzazione. Ma altri terreni stanno rapidamente maturando, mettendo ad esempio in discussione la crescente privatizzazione delle conquiste scientifiche e tecnologiche, le conseguenze economiche, sociali e culturali di un tale processo e le sue implicazioni in termini di concentrazione dei poteri3.
Così, da più parti e in diversi modi sta prendendo forma l’idea che anche la salute, e i suoi presidi, siano da considerare un bene comune e debbano porsi come un comune obbiettivo di ognuno e di tutti gli uomini la loro difesa e la loro promozione.
Peraltro, l’articolo 32 della nostra Costituzione repubblicana già caratterizzava nel 1948 la salute come “diritto di ciascun individuo e interesse della collettività”4.

2. La salute come bene comune: perché e in che senso
Numerose ricerche, a livello internazionale, hanno messo in luce i diffusi limiti e i gravissimi guasti prodotti direttamente o indirettamente in questi decenni sulla qualità e, talora, sulla durata stessa della vita umana, sulla salute individuale e collettiva e sull’equilibrio generale dell’ambiente, a causa del prevalere di politiche orientate dalla semplice logica di mercato e, in generale, dalla ideologia e dalle pratiche di tipo neo-liberista5

Queste politiche hanno fortemente aggravato in ogni Paese, e fra i vari Paesi, la forbice delle diseguaglianze sociali sia per quanto riguarda i fattori di rischio delle più diverse patologie e di alcuni preoccupanti disturbi psichici6 sia per quanto riguarda l’accesso e l’effettivo utilizzo dei servizi sanitari di base e ospedalieri7. Una situazione, questa, denunciata peraltro da numerosi documenti dell’Organizzazione mondiale della sanità8 e, più recentemente e in modo specifico, dalla sua Commissione sui determinanti di salute, che ha reso pubblico nel 2008 un proprio Rapporto conclusivo in cui viene testualmente dichiarato che «l’assistenza sanitaria è da considerare un bene comune e non una merce dipendente dal mercato»9.
Appare sempre più chiaro, dunque, che il superamento delle ipoteche poste dalle semplici “leggi di mercato” sulla difesa e la promozione della salute richiede coerenti politiche tese a considerare la salute come un vero “bene comune”.
Certo, la difesa della propria salute costituisce, in linea di principio, un bisogno e un compito che – nell’ambito delle possibili opzioni consentite dal proprio sistema sanitario – ogni cittadino affronta come persona: è in questo senso e in questo quadro che si configurano una serie di “diritti individuali”: concernenti, ad esempio, una corretta e “riservata” informazione sul proprio stato di salute e il consenso relativo alle proprie cure, alla gestione della propria morte e al possibile utilizzo postumo di parti del proprio corpo. E tuttavia la “risposta” al bisogno di difesa della salute è comunque, in larghissima misura, un prodotto sociale, come è sociale la dimensione in cui si producono i determinanti oggettivi e soggettivi di salute, i saperi e i presidi per la sua difesa, i livelli di consapevolezza e gli stessi vissuti di salute/malattia; ed è solo ad una scala sociale peraltro, e dunque collettiva, che possono prendere forma le operazioni contro i fattori patogeni e di contagio e la costruzione di contesti ambientali e condizioni di vita funzionali alla difesa e promozione della salute.
È però importante chiarire in che senso la rivendicazione della salute come un bene comune assuma in sé anche quella della salute come un bene globale e indivisibile e come un diritto egualitario per tutti gli uomini, e proponga qualcosa di più, e forse di diverso, dall’ attuale gestione pubblica dei servizi sanitari, che ha pur segnato una conquista decisiva circa trent’anni fa anche nel nostro Paese.
In effetti, che la salute costituisca un bene globale e indivisibile sembra ormai, almeno in prima approssimazione, largamente acquisito: le sempre più estese e profonde interconnessioni di ogni tipo, ad un livello ormai planetario, non consentono ad alcuno di pensare che la propria salute o quella della propria comunità possa difendersi alla sola scala locale10. Ma sempre più chiaramente, emerge di pari passo, proprio in rapporto ad alcuni clamorosi casi recenti, l’esigenza di sottrarre le decisioni sovranazionali a potenti centri non controllabili di potere e di impedire che le strategie di difesa della salute – ormai planetarie, appunto – vengano stabilite nel sostanziale interesse di potenti concentrazioni industriali multinazionali oggi peraltro in grado di allarmare artificialmente e rapidamente l’opinione pubblica in ogni parte del mondo e di condizionare gli stessi organismi internazionali di controllo11. Nei Paesi che hanno costruito un sistema sanitario pubblico, anche il diritto egualitario di tutti gli uomini alla difesa della propria salute appare ufficialmente riconosciuto. Tuttavia anche in tali paesi esso appare manifestamente limitato da un gran numero di diseguaglianze sociali di vario ordine, che pesano fortemente sia in relazione ai fattori di rischio sia in relazione all’accesso e ai benefici dei servizi sanitari. Ed è una forbice di diseguaglianze, questa, come si è prima osservato, che negli ultimi anni si è andata gravemente divaricando in ogni parte del mondo.
È ben chiaro che la promozione della salute investe quasi ogni settore delle programmazione socio-politica. E tuttavia, anche in questo orizzonte sembra importante domandarsi se, per quanto specificamente le concerne, la gestione della sanità possa essere in grado, nelle sue forme attuali e nelle attuali condizioni, di affrontare gli odierni compiti della difesa e della promozione della salute per tutti i cittadini.

3.Problemi e compiti attuali del servizio sanitario
Certamente, la gestione pubblica della sanità rappresenta una conquista irrinunciabile, esito, soprattutto, delle grandi ed estese battaglie di riforma – culturali, sindacali e politiche – condotte negli anni ‘60 e ’70. Essa si conferma tuttora come un punto di non ritorno, ancor più a fronte delle diffuse politiche di più o meno esplicita riprivatizzazione di compiti e di servizi e, soprattutto, a fronte del palese fallimento delle politiche neo-liberiste di delega al “privato” dove queste sono state effettivamente attuate.
Occorre d’altronde considerare che rispetto al momento in cui fu approvata la legge 833 che istituì in Italia il sistema sanitario nazionale – era il 23 dicembre 1978 – sono mutate in modo significativo parecchie situazioni di vario ordine e di notevole portata.
Sono mutati, innanzitutto, il quadro nosografico e quello demografico. La speranza di vita si è in effetti allungata: e tuttavia – come è ormai largamente documentato – si manifesta un grande scarto, tra le varie fasce sociali, sia rispetto ai fattori di rischio sia rispetto al reale accesso ai servizi12. A causa di molteplici fattori ma anche, largamente, in correlazione con il cosiddetto invecchiamento della popolazione, è aumentato in modo notevole il peso delle patologie di lungo periodo e dei fenomeni di cronicizzazione – una vita più lunga ma segnata da infermità e disagi –: con la conseguenza di un enorme incremento delle esigenze di impegno e di spesa richieste ai servizi sanitari, e della necessità, ormai indilazionabile, di un deciso sviluppo e di uno spostamento dell’attenzione e dell’allocazione di risorse verso i momenti della prevenzione e della medicina di base e verso il coinvolgimento “competente” degli utenti e di tutti i cittadini nella gestione dei fattori di rischio e delle stesse patologie in atto.
Appare peraltro sempre più chiara la complessità dei determinanti che entrano in gioco, interagendo sinergicamente, nel prodursi di ogni tipo di patologie: fattori oggettivi e soggettivi in cui intervengono pesantemente condizioni e dinamiche sociali o socialmente prodotte (come nel caso di numerose situazioni ambientali), le quali si intrecciano, in forma “sistemica”, con le condizioni e le dinamiche di matrice biologico-naturalistica13. Il che allarga di molto, e ben al di là dei compiti dei servizi e delle professioni strettamente sanitarie, l’orizzonte strategico – e dunque anche politico – in cui va promossa e costruita giorno per giorno in una prospettiva di medio e lungo periodo la difesa e la promozione della salute.
Più in generale, sono significativamente mutati in questo periodo nel nostro Paese la struttura della società – i suoi fondamenti economici e la sua composizione sociale, cioè –, i suoi livelli di coesione, il suo sistema di valori e di mete individuali e collettive, l’organizzazione del potere e le forme e i canali dei processi di egemonia. E si sono aggravate le diseguaglianze di classe e gli squilibri fra le diverse aree regionali, anche nel campo della salute e dei servizi sanitari.
Al fondo di un tale mutamento sembrano porsi almeno tre macro-processi: (a) si è passati da una produzione in cui lo spezzettamento delle mansioni individuali poteva ricomporsi oggettivamente e soggettivamente nella dimensione del luogo di lavoro, a una frantumazione e disseminazione di processi produttivi e a una finanziarizzazione pervasiva di “produzione globale” che sovverte i cardini del welfare e rende assai difficile ai territori di dominare concettualmente e operativamente i processi e i loro fattori; (b) si è passati dalla dimensione degli stati-nazione a quello, sempre più “irraggiungibile”, degli stati-rete; (c) si è passati, infine – con conseguenze disastrose ormai chiaramente visibili ma non per questo con sufficienti ripensamenti della loro matrice neo-liberista – da politiche pubbliche di regolamentazione e contenimento del privato a un suo patente e sempre più esteso e subalterno sostegno.
Ogni discorso strategico sulla difesa e la promozione della salute deve comunque tenere in conto questi macro-processi e l’insieme delle trasformazioni intercorse nell’ultimo trentennio, il conseguente peggioramento di molte situazioni ambientali e delle diseguaglianze sociali – aggravate dalla perdurante crisi economica mondiale – anche per quanto riguarda i fattori di rischio, il possibile utilizzo dei servizi e dunque la speranza di vita.
Al tempo stesso, in questo nuovo contesto storico e a fronte degli odierni problemi di sanità pubblica non possiamo non tenere in conto che in questo trentennio nel nostro sistema sanitario si sono verificati più o meno espliciti tentativi di privatizzazione e, comunque – malgrado il passaggio dalla gestione statale al decentramento regionale – un preoccupante processo di verticalizzazione di tutte le sue strutture e di parallelo affievolirsi dei meccanismi di controllo “dal basso” – previsti invece dalla legge 883 – per l’effetto convergente di un generale indebolimento della partecipazione collettiva, in tutto il Paese, e del progressivo affermarsi delle procedure di cosiddetta aziendalizzazione. Una situazione, questa, cui si aggiungono le prospettive, seppure ancora nebulose, poste in particolare alla spesa sanitaria dai progetti del “federalismo fiscale” e dalle misure economiche promosse dall’attuale governo nazionale come propria risposta alla perdurante crisi economica.


4. Per una caratterizzazione del servizio sanitario come un bene comune
Per tutto ciò, la proposta della salute e della sanità come “beni comuni” non può non comportare, inevitabilmente, qualcosa di più di una generica gestione pubblica della sanità e, comunque, il superamento dell’attuale modello economicistico/aziendalistico di sistema sanitario pubblico.
Ci sembra, in sostanza, che almeno in prima approssimazione tale proposta (dal “pubblico” al “comune”) possa così caratterizzarsi:
(a) essa concerne, anzitutto, processi di difesa e promozione della salute che vanno molto al di là dell’ambito di lavoro delle professioni sanitarie, si fondano su saperi e su pratiche che superano largamente il campo della biomedicina, e investono i più diversi orizzonti del vivere sociale e dei contesti ambientali: ciò significa non solo superare il vecchio modello bio-medico per adottarne uno di tipo bio-psico-sociale, ma assumerne tutte le implicazioni in un orizzonte di saperi e di strategie tecniche e politiche che riqualifichino la formazione e le modalità di lavoro dei professionisti della salute, adeguino al nuovo modello le competenze e le procedure delle strutture sanitarie, definendone così la funzione specifica e fondamentale in un ambito, tuttavia, di iniziative politiche complessivamente coerenti e di assai più larga portata.     
(b) deve ormai riferirsi a strategie di lavoro che partendo dalla concretezza delle situazioni e dei bisogni locali si muovano tuttavia in un orizzonte di riferimenti assai più ampio e tengano anche in conto la progressiva multiculturalità delle utenze dei nostri servizi;
(c) comporta una forte enfasi sulla soggettività sociale e, soprattutto, sull’attiva partecipazione collettiva – pur variamente organizzata – ai vari processi decisionali e operativi concernenti la salute: comporta cioè l’utilizzazione e la messa in campo della soggettività dei cittadini, delle loro varie forme di organizzazione collettiva e di rappresentanza locale e settoriale, delle attività e dei movimenti per la riduzione delle diseguaglianze di opportunità e per la costruzione di contesti ambientali più vivibili, l’utilizzazione e la messa in campo, dunque, delle allargate risorse che ne possono risultare e che vengono oggi complessivamente definite con il termine (pur discutibile) di “capitale sociale”14;
(d) assume, in modo deciso, che l’esperienza viva dei pazienti, dei care-givers e di tutti i cittadini, e le acquisizioni e i punti di vista che ne conseguono, costituiscono un sapere prezioso e insostituibile che deve entrare a far parte, a pieno titolo, dell’orizzonte culturale e dei presupposti operativi del sistema sanitario e delle sue articolazioni;
(e) richiede la messa in atto di una serie di processi di informazione e formazione in vista del costituirsi di una “coscienza scientifica di massa” e di un alto numero di “cittadini competenti” in grado di dialogare e contare – anche sul terreno delle scelte prioritarie – con i centri istituzionali di programmazione e gestione della sanità in merito alla elaborazione delle linee di lavoro e alle conseguenti opzioni sulle priorità di allocazione delle risorse.
In questo senso la “salute come bene comune” (che esprime perciò anche l’esigenza di una “salute globale”) travalica il significato di un bene esistente e posseduto “in comune” e si allarga a una definizione di “comune” in quanto opera che viene via via “costruita insieme”.
In tale prospettiva occorre lavorare intorno a un gran numero di problemi e di dimensioni – economiche, giuridiche, organizzative, culturali,… – che richiedono ancora approfondimenti e diffuse concrete verifiche. Ne esemplifichiamo qui solo alcuni di evidente portata.
(a) A quali scale territoriali e settoriali si colloca volta a volta il riferimento al “bene comune” e ai relativi meccanismi di partecipazione/intervento? con quale flessibilità? e con quali pesi relativi? Chi è “comune” nelle attività e nelle decisioni relative a un centro di salute, ad esempio? e nella programmazione sanitaria regionale? chi è “comune” nelle scelte relative alla collocazione delle risorse concernenti, ad esempio, la risposta dei servizi ai pazienti colpiti da una determinata patologia? E come garantire, con queste procedure, l’integrazione fra le differenti strutture e la unitarietà complessiva del sistema (e delle sue disponibilità finanziarie)?
(b) Se intorno alle linee fissate dalla programmazione si drenano saperi, attività e procedure di verifica di eterogenea matrice, anche “privata”, come regolamentare il riconoscimento dei possibili investimenti finanziari “non pubblici” fuori dalle pure e semplici “leggi di mercato”? e quale controllo di compatibilità con la programmazione sanitaria complessiva il “comune” può esercitare rispetto al “privato”? Possibili effetti perversi già affiorano, peraltro, anche nelle pratiche di ricorso pubblico alla cosiddetta “sussidiarietà”. E come contenere, in generale, le potenti spinte private – pensiamo ad esempio al peso delle multinazionali farmaceutiche – nei confronti del “governo della salute”?
(c) Quali precondizioni e quali possibili modelli giuridico-operativi sono da mettere a punto, validare e praticare, in questo articolato passaggio dal semplice “pubblico” al “comune”?
La messa in campo del progetto di una “salute come bene comune” comporta perciò nel nostro Paese – contro gli evidenti e multiformi tentativi di restaurazione privatistica oggi in atto – non solo una astratta difesa del carattere pubblico del sistema sanitario, ma anche una revisione e un deciso superamento delle sue attuali strutture verticistiche e una sua forte apertura alla soggettività sociale e a nuove forme di discussione, partecipazione e gestione comunitaria “dal basso”, a partire dalle decisioni sulle scelte strategiche fino alla valutazione concreta dei risultati raggiunti.
E’ questo un compito complesso, non facile né di breve durata, giacché esso comporta – come si è visto –  la progettazione di un nuovo, più avanzato ed efficace modello di sistema sanitario – centrato sulla prevenzione e sul territorio – e la costruzione delle relative strutture organizzative e politiche, nuovi equilibri tra le sue diverse componenti e tra il momento delle valutazioni tecniche e quello delle decisioni operative, la sua radicazione nel tessuto delle comunità locali e dei relativi strumenti di informazione e controllo democratico, la individuazione delle necessarie risorse umane e finanziarie e della loro più efficace allocazione. Nonché la messa a punto di adeguati modelli giuridici e di coerenti procedure politico-gestionali. E, certo, progressive e attente sperimentazioni.
In quest’ultima direzione si sono mosse alcune esperienze, i cui risultati vanno appunto attentamente valutati. I “patti per la salute” hanno costituito, ad esempio, un primo tentativo di ricostruire una più larga base istituzionale democratica alle politiche locali e regionali sanitarie. Ma ci pare che un particolare impulso e una particolare attenzione siano da rivolgere alla costruzione delle cosiddette “case della salute”, già in parte avviata, in cui si concentrano sinergicamente – in modo unitario, visibile e “partecipato” – tutte le risorse (e le risposte) socio-sanitarie umane e tecniche di un limitato e concreto territorio: e ne risultano superate, così, le differenti matrici istituzionali degli operatori e il tradizionale isolamento dei singoli professionisti, potenziate le strumentazioni, operativamente e culturalmente costituito un luogo territoriale di riferimento per tutte le attività sanitarie e per i relativi processi di informazione e partecipazione.
Una grossa sfida, dunque. Ma questa prospettiva sembra l’unica alternativa a un preoccupante processo di progressiva sfiducia dei protagonisti, di disimpegno aggravato dalla dilagante precarietà del lavoro e dalla conseguente incertezza sul proprio futuro, di svuotamento burocratico delle strutture, e dunque di una ridotta efficacia dell’intero sistema. O, peggio, a una vera e propria restaurazione della logica privatistica delle diseguaglianze.
Di fatto, la difesa e la promozione della salute sono ormai da considerare un compito di cui la società deve farsi carico in quanto bene essenziale e insostituibile, svincolato dalla semplice logica del profitto – al pari del diritto all’istruzione –. La tutela della salute è indissociabile dall’insieme dei cosiddetti “diritti umani”: ne costituisce, anzi, un nodo preliminare ed essenziale.


Note
1  Questo sogno e queste esperienze ricorrono appunto, numerose, pressoché in tutte le civiltà e in tutto il percorso storico del “nostro” mondo a partire dagli Esseni, nell’antica Palestina, e poi verso la fine del medioevo con i movimenti ereticali e semi-ereticali e infine le rivolte contadine nell’epoca della Riforma. Per riferirci a situazioni più vicine, e di “casa nostra”, sono note le gravi vicende seguite al processo ottocentesco verso la cosiddetta “proprietà terriera perfetta”, che cancellò numerosi diritti tradizionali collettivi a una (seppur assai limitata) disponibilità di taluni beni ubicati dentro possedimenti pubblici o privati – i diritti di pascolo o legnatico, ad esempio, o anche la “spigolatura” del grano –: e dunque le reazioni e le resistenze drammatiche che ne risultarono e che finirono per moltiplicare a dismisura, in forma individuale e clandestina, pratiche di prelievo ormai giuridicamente rubricate come “furti campestri” (si vedano in merito le abbondanti cronache giudiziarie e i numerosi studi politico-sociali di quel periodo). È peraltro significativo che questo sogno ricorrente costituisca il tema centrale, in un gran numero di società stratificate, sin dall’Antichità, di quelle manifestazioni periodiche che celebrano una volta all’anno le gioie di un “mondo alla rovescia” e che in Occidente hanno preso il nome di “carnevali”: nel corso delle quali cadono simbolicamente le differenze di classe e di potere, si infrangono i divieti e vi è abbondanza di cibo per tutti.

2 In merito è almeno da vedere Elinor Ostrom, Governing the Commons. The evolution of institutions for collective action, Cambridge University Press, Cambridge (Uk) - New York, 1990, XVIII+298 pp. [ediz. ital.: Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità, a cura di Paolo Ferri, Marsilio, Venezia, 2006, XLVI+353 pp.].
Non è peraltro senza significato che di recente – con evidenti parallelismi rispetto alla linea di elaborazioni e proposte intorno al modello del “bene comune” – sia andata affermandosi, per opera di autorevoli economisti, una riflessione su possibili mutamenti degli attuali assetti economico-sociali, in cui viene tematizzata come nodo e obiettivo di fondo la “questione della felicità”: in merito si possono ad esempio vedere la antologia curata da Luigino Bruni e Pier Luigi Porta, Felicità ed economia. Quando il benessere è ben vivere, prefazione di Giacomo Becattini, Guerrini e Associati, Milano, 2004, 302 pp., e il volume di Richard Layard, Happiness. Lessons from a new science, Penguin Press, New York, 2005, 310 pp. [ediz. ital.: Felicità. La nuova scienza del benessere commune, Rizzoli, Milano, 2005, 362 pp.]. In questo orizzonte è del resto da considerare, in certo senso, tutta la linea di riflessioni e proposte sviluppata a partire dalla fine degli anni ’70 dal ben noto economista indiano Amartya Kumar Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998.

3  Elinor Ostrom - Charlotte Hess (curatrici), Understanding knowledge as a Commons. From theory to practice, The Mit Press, Cambridge (Massachusetts, Usa), 2006, XIV+ 367 pp. [ediz. ital.: La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, Milano, 2009, LIV+409 pp.].

4 Nella dottrina giuridica il diritto alla salute viene infatti configurato, oggi, come un “diritto fondamentale assoluto”, caratterizzato dunque dalla inviolabilità, dalla intrasmissibilità, dalla inalienabilità, dalla irrinunciabilità, dalla indisponibilità: più in particolare, come un “diritto soggettivo e assoluto pubblico”, suscettibile, proprio perché corrispondente ad un fondamentale interesse collettivo, di tutela diretta da parte del giudice ordinario anche nei confronti della pubblica amministrazione, che non ha il potere di affievolirlo o pregiudicarlo.

5 Non è il caso di riprendere, qui, evidenze ben note. Basti solo ricordare, per il suo valore emblematico, il vero e proprio crollo della vita media e della speranza di vita  – largamente documentato dall’Organizzazione mondiale della sanità e da molte altre fonti – verificatosi in Russia con il venir meno del sistema sanitario sovietico e della rete di protezione sociale in cui esso era inserito. Nella Federazione russa, ad esempio, la speranza di vita maschile è caduta da 63,8 anni nel 1990 a 57,6 nel 1994: più di sei anni in un quinquennio (si veda a p. 11 l’ampio studio di Ellie Tragakes - Suszi Lessof, Health care systems in transition. Russian Federation, a cura di Suszi Lessof, prodotto come vol. 5, n. 3, della propria collana di testi da The European Observatory on Health Systems and Policies [presso il WHO Regional Office of Europe], Copenhagen, 2003, 202 pp.). In merito, anche Judith L. Twigg, Russian health status in the 1990s: national trends in regional variation, The National Council for Eurasian and East European Research [Nceeer], Washington (D.C.), 2000, …pp. / Vladimir M. Shkolnikov - Martin McKee - David A. Leon,  Changes in life expectancy in Russia in the 1990s, “Lancet”, n. 357, 2001, pp. 917-921 / Evgueni M. Andreev - Martin McKee - Vladimir M. Shkolnikov, Health expectancy in the Russian Federation: a new perspective on the health divide Europe, “Bulletin of the World Health Organization”, vol. 81, n. 11, novembre 2003, pp. 778-787 / Martin McKee, The health effects of the collapse of the Soviet Union, pp. 17-36, in David A. Leon - Gill Walt (curatori), Poverty, inequality and health: an international perspective, Oxford University Press, Oxford, 2001, 358 pp. / Dina C. Balabanova - Jane Falkingham - Martin McKee, Winners and losers: expansion of insurance coverage in Russia in the 1990s, “American Journal of Public Health”, vol. 93, n. 12, dicembre 2003, pp. 2124-2130.

6 Si consideri, ad esempio, l’impressionante aumento del consumo di farmaci antidepressivi – per non parlare del complessivo consumo di sostanze psicoattive – in tutti i Paesi cosiddetti “avanzati”.

7 Si veda in merito, ad esempio, Giovanni Berlinguer, Le disuguaglianze di salute: un’emergenza globale, “Educazione Sanitaria e Promozione della Salute”, vol. 31, n. 1, gennaio-marzo 2008, pp. 10-17. E per la sola Europa, Marco Geddes da Filicaia - Gavino Maciocco, Diseguaglianze nella salute in Europa, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, anno XXXVII, n. 7, 15 aprile 2007, pp. 1-9. Peraltro, già nel 2000 l’Associazione italiana di epidemiologia (Aie) aveva dedicato uno dei suoi annuali convegni a “Epidemiologia della diseguaglianza nei Paesi del Mediterraneo” (Roma, 18-21 aprile 2000). Dalla abbastanza vasta letteratura internazionale è forse il caso di segnalare, per il suo serio impianto, la sua ampiezza e la sua “ufficialità”, l’indagine condotta negli Stati Uniti dal Committee on understanding and eliminating racial and ethnic disparities in health care dell’Institute of medicine of the National academies per verificare il peso della appartenenza a una “minoranza etnica o razziale” in termini di «a lower quality of healthcare than non-minorities» (cfr. p. 1): Brian D. Smedley - Adrienne Y. Stith - Alan R. Nelson (curatori), Unequal treatment. Confronting racial and ethnic disparities in health care, The National Academies Press, Wshington (D.C.), 2003, XVI+764 pp. [di cui le pp. 417-738 sono date solo sul cd-rom allegato al volume]. Si veda anche David A. Leon - Gill Walt - Lucy Gilson, International perspectives on health inequalities and policy, “British Medical Journal”, n. 322, marzo 2001, pp. 591-594.

8 Sui problemi dell’equità in salute, già agli inizi degli anni ’90 l’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms pubblicò due documenti rispettivamente dedicati il primo alla formulazione di concetti e principi e il secondo alle strategie e alle politiche di promozione: Margareth Whitehead - Göran Dahlgren, Concepts and principles for tackling social inequities in health. Levelling up Part 1, World Health Organization. Regional Office for Europe, Copenhagen, 1990, 34 pp., e  Göran Dahlgren - Margareth Whitehead, Policies and strategies to promote social equity in health, World Health Organization. Regional Office for Europe, Copenhagen, 1991, poi rivisto e ripubblicato dall’Institute for Future Studies, 2007, 67 pp.

9 «The Commission considers health care a common good, not a market commodity» (Commission on Social Determinants of Health, Closing the gap in a generation. Health equity through action on the social determinants of health, World Health Organization, Geneva, 2008, 248 pp., cfr. p. 95).

10 La questione dei possibili contagi provenienti “dal’esterno” si è venuta ponendo in Europa, in modo evidente e drammatico già alla fine del Medioevo, in particolare a fronte del rischio di nuove possibili epidemie di peste portate da navi provenienti dall’Oriente. «Fu Venezia la prima a proibire nel 1374 l’accesso nella città a uomini ed a merci infette o anche semplicemente sospette» (Arturo Castiglioni, Storia della medicina, nuova ediz. riveduta e ampliata, A. Mondadori, Milano, 1936, XXX+825 pp., cfr. p. 309). Poco dopo, nel 1377, la piccola repubblica adriatica “veneta” di Ragusa (oggi Dubrovnik, Croazia) stabilisce «un punto d’approdo lontano dalla città e dal porto, ove tutti coloro che sono sospetti di essere affetti dal morbo devono passare un mese all’aria e al sole e prescrive che chiunque venga in contatto con loro debba essere isolato. E poiché ben presto si dimostra che il termine di trenta giorni non è sufficiente, si stabilisce un’epoca di quaranta giorni; e questa è la prima disposizione quarantenaria, alla quale ben presto seguono quelle di altre città, fra le quali Marsiglia, che erige nel 1383 un’apposita stazione di quarantena, e Venezia, che saggiamente codifica tutte le misure di difesa contro la peste in un’esemplare legislazione sanitaria» (ibidem, cfr. p. 309). Un breve riferimento alla iniziativa presa nel 1377 dalla città di Ragusa/Dubrovnik si trova anche in Henri H. Mollaret, nel capitolo I grandi flagelli (pp. 425-468, cfr. p 458) a lui affidato da Mirko D. Grmek (curatore), Storia del pensiero medico occidentale, 3 voll., vol. II: Dal Rinascimento all’inizio dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1996, 603 pp. Per un sintetico esame storico della “globalizzazione microbica” conseguente alla scoperta dell’America da parte degli Europei e alle successive tappe di una globalizzazione delle difese sanitarie cfr. Giovanni Berlinguer, Globalizzazione e salute globale: un prologo (1492), tre atti (XIX e XX secolo), e un epilogo incerto, “Epidemiologia & Prevenzione”, anno 26, n. 2, 2002, pp. 55-59.

11 Appare emblematico il caso dell’ “allarme pandemia” avallato dalla Organizzazione mondiale della sanità in riferimento alla cosiddetta influenza a/h1n1 nell’inverno 2009-2010 e recentemente denunciato dal “British Medical Journal”: si vedano prima la urgente richiesta di una sufficiente documentazione (Editor’s choice, Fiona Godlee, We want raw data, now, e per le aperte accuse almeno: Editorial, Fiona Godlee, Conflict of interest and pandemic flu, “BMJ”, vol. 340, 3 giugno 2010, pp. ……, e Deborah Cohen e Philip Carter, WHO and the pandemic flu “conspiracies”, “BMJ”, vol. 340, 12 giugno 2010, pp. 1274-1279.

12 Per tutta questa tematica il rinvio più organico è al fascicolo monografico dedicato a Diseguaglianze di salute in Italia, a cura di Giuseppe Costa - Teresa Spadea - Mario Cardano, supplemento a “Epidemiologia & Prevenzione”, anno 28, n. 3, maggio-giugno 2004, 162 pp. Su questa stessa tematica è tornato a riflettere il Convegno internazionale “Salute e diseguaglienze sociali” (Pescara, 23-25 novembre 2006) organizzato dalla Sezione “Sociologia della salute e della medicina” della Associazione italiana di sociologia (Ais). In merito, si veda anche il recente volume di Giovanni Padovani, Il diritto negato. La salute e le cure sono uguali per tutti?, Il Pensiero Scientifico, Roma, 2008, 169 pp., e anche il breve articolo dello stesso Autore, La salute e le cure sono uguali per tutti?, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, anno XXXVIII, n. 14, 1-15 agosto 2008, pp. 1-5. Sulle diseguaglianze sociali in salute, sul modello concettuale che vi è sotteso, sulle evidenze empiriche di tali diseguaglianze a livello internazionale, europeo e italiano (con alcuni specifici approfondimenti per la Toscana), è da vedere l’ampia recente relazione conclusiva redatta da Gavino Maciocco e Elisa Scopetani per il Gruppo di lavoro “Diseguaglianze sociali nella salute e sanità d’iniziativa”, presentata al Convegno “La sanità toscana. Un bilancio per il futuro” tenuto a Cortona il 19-20 febbraio 2010 e organizzato dal Centro di promozione della salute “Franco Basaglia” (documento di 29 pagine). Una sintesi di questa relazione è stata poi pubblicata, sempre a cura di Gavino Maciocco e Elisa Scopetani, Diseguaglianze nella salute. Lo stato dell’arte, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, anno XL, n. 11-12, 15 giugno - 1 luglio 2010, pp. 16-27. Sulle diseguaglianze in salute va anche segnalato il Manifesto per l’equità, prodotto nel 2004 da un gruppo di lavoro coordinato da Cesare Cislaghi e Giuseppe Costa, promosso dalla Associazione italiana di epidemiologia (Aie) e fatto proprio dalla Associazione italiana di economia sanitaria (Aies), dalla Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep) e dalla Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica (Siti). In effetti, già nel 2001 il nostro Comitato nazionale per la bioetica aveva reso pubblico un suo documento intitolato Orientamenti bioetici per l’equità nella salute.  E ancor prima, le principali situazioni che determinano diseguaglianze di opportunità rispetto ai servizi sanitari erano state partitamente delineate nel secondo capitolo (Violazione di diritti, lesione di interessi, delusione di legittime aspettative e non attuazione di micro-diritti) del ben noto volume prodotto dal Movimento federativo democratico e dal Tribunale per i diritti del malato, a cura del Ce.r.fe., Rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1992, XVI+481 pp.

13 Per tutta questa tematica il rinvio più organico è al fascicolo monografico dedicato a Diseguaglianze di salute in Italia, a cura di Giuseppe Costa - Teresa Spadea - Mario Cardano, supplemento a “Epidemiologia & Prevenzione”, anno 28, n. 3, maggio-giugno 2004, 162 pp. Su questa stessa tematica è tornato a riflettere il Convegno internazionale “Salute e diseguaglienze sociali” (Pescara, 23-25 novembre 2006) organizzato dalla Sezione “Sociologia della salute e della medicina” della Associazione italiana di sociologia (Ais). In merito, si veda anche il recente volume di Giovanni Padovani, Il diritto negato. La salute e le cure sono uguali per tutti?, Il Pensiero Scientifico, Roma, 2008, 169 pp., e anche il breve articolo dello stesso Autore, La salute e le cure sono uguali per tutti?, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, anno XXXVIII, n. 14, 1-15 agosto 2008, pp. 1-5. Sulle diseguaglianze sociali in salute, sul modello concettuale che vi è sotteso, sulle evidenze empiriche di tali diseguaglianze a livello internazionale, europeo e italiano (con alcuni specifici approfondimenti per la Toscana), è da vedere l’ampia recente relazione conclusiva redatta da Gavino Maciocco e Elisa Scopetani per il Gruppo di lavoro “Diseguaglianze sociali nella salute e sanità d’iniziativa”, presentata al Convegno “La sanità toscana. Un bilancio per il futuro” tenuto a Cortona il 19-20 febbraio 2010 e organizzato dal Centro di promozione della salute “Franco Basaglia” (documento di 29 pagine). Una sintesi di questa relazione è stata poi pubblicata, sempre a cura di Gavino Maciocco e Elisa Scopetani, Diseguaglianze nella salute. Lo stato dell’arte, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, anno XL, n. 11-12, 15 giugno - 1 luglio 2010, pp. 16-27. Sulle diseguaglianze in salute va anche segnalato il Manifesto per l’equità, prodotto nel 2004 da un gruppo di lavoro coordinato da Cesare Cislaghi e Giuseppe Costa, promosso dalla Associazione italiana di epidemiologia (Aie) e fatto proprio dalla Associazione italiana di economia sanitaria (Aies), dalla Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep) e dalla Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica (Siti). In effetti, già nel 2001 il nostro Comitato nazionale per la bioetica aveva reso pubblico un suo documento intitolato Orientamenti bioetici per l’equità nella salute.  E ancor prima, le principali situazioni che determinano diseguaglianze di opportunità rispetto ai servizi sanitari erano state partitamente delineate nel secondo capitolo (Violazione di diritti, lesione di interessi, delusione di legittime aspettative e non attuazione di micro-diritti) del ben noto volume prodotto dal Movimento federativo democratico e dal Tribunale per i diritti del malato, a cura del Ce.r.fe., Rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1992, XVI+481 pp.

14 Sul dibattuto concetto di “capitale sociale” e sulla relativa poliedricità di significati con cui esso è stato definito nell’ultimo trentennio (Pierre Bourdieu, James Coleman, Robert Putnam, Nan Lin, Pierpaolo Donati,…) si può vedere l’ampia bibliografia preceduta da una introduzione storico-critica, prodotta da Massimiliano Minelli, Capitale sociale e salute. Una bibliografia ragionata, presentazione di Paolo Bartoli, Morlacchi Editore, Perugia, 2007, 108 pp. Della ampia introduzione storico-critica (Capitale sociale e salute, pp. 13-56) è qui da segnalare il capitolo II: Capitale sociale, diseguaglianze e livelli di salute, pp. 29-40. In merito si possono anche vedere Roberto Cartocci, Chi ha paura dei valori? Capitale sociale e dintorni, “Rivista Italiana di Scienza Politica”, anno XXX, n. 3, dicembre 2000, pp. 423-474, Roberto Cartocci, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2007, 168 pp., Luigi Tronca, Una grandezza rilevante per la salute: il capitale sociale e la sua distribuzione in Italia, “Educazione Sanitaria e Promozione della Salute”, vol. 32, n. 4, novembre-dicembre 2009, pp. 291-317, tutti con ampie bibliografie e saggi di individuazioni empiriche sui caratteri e il peso del capitale sociale nelle varie regioni italiane.






già pubblicato sul n.4/2010 della rivista Educazione sanitaria e promozione della salute

Inserito martedì 18 ottobre 2011


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