MILLENOVECENTOQUARANTOTTO… : Falastin DUEMILAUNDICI…: per lo Stato di Palestina
La
terra ci rifiuta,
ci
spinge attraverso l’ultimo varco
e
ci strappiamo le membra per attraversarlo…
Dove
andremo dopo le ultime frontiere?
Dove
voleranno gli uccelli oltre l’ultimo cielo?
[M.
Darwish, La terra ci rifiuta,
scritta in seguito all’uscita dell’OLP dal Libano]
Sono nato nel 1948, anno
controverso, di fatti, avvenimenti, di situazioni. Tanti altri sono
nati in quell’anno, e tante cose, importanti o meno importanti,
successero. Nel 1948 nacque la Costituzione Italiana, per esempio. Ma
tanto altro accadde, di bello (per alcuni?) e di non bello (per
altri); così, per un popolo, che ancora poco abbiamo imparato a
conoscere e capirne le amarezze e delusioni, il
millenovecentoquarantotto fu l’anno della sua frustrazione, della
sua catastrofe, al-Nakba, del disastro, al-Naksa, della
sua frammentazione, migrazione, della cacciata dalla propria terra…
OGNI
MATTINA A JENIN
“Questa
è la storia di una famiglia araba lungi i sessant’anni del
conflitto israelo-palestinese. Anche se racconta di tragici lutti e
indicibili dolori, questa è una storia d’amore – l’amore tra
un contadino e la sua terra; tra una madre e i suoi figli; tra un
uomo e una donna; tra amici. Ho messo il mio cuore in ogni pagina di
questo romanzo: spero che Ogni
mattina a Jenin tocchi i
vostri cuori e le vostre menti, che vi ricordi la nostra comune
umanità.”
Susan
Abulhawa
“Non
ricordo che effetto ebbe allora la scena che mi si aprì davanti agli
occhi, ma adesso il pensiero di quel paesaggio mattutino mi lascia
senza fiato. Era il suggestivo sfondo delle vite dei miei genitori –
chilometri e chilometri di pascoli che rivestivano vallate racchiuse
tra oliveti ondulati. Alberi simili a nonni accoglienti e centenari,
grinzosi e ricurvi sotto il peso di braccia che si tendevano in ogni
direzione come se stessero pregando. Gli uomini che avevano
conquistato questa terra gloriosa, che risplendeva verde accanto alle
azzurre acque del Mediterraneo fin da prima di Mosè, avevano detto
che era un ‘deserto’ che loro avevano ‘fatto rifiorire’. Un
sole splendido bagnava le colline della sua luce, simile a vernice
gialla, e illuminava le vecchie case arabe che resistevano alle
insidie dell’abbandono. …”
E fu anche l’anno, come
tanti altri successivamente, sino al 1967 e 1968, di resistenza, di
tenacia e di tenace forza di sopravvivenza per tornare nella propria
patria…
«
Bismillah al-rahman al-rahim
Mia cara sorella Amal
Devo andare. Ti prego,
capiscimi. Sono settimane che cerco di scriverti questa lettera e non
riesco a trovare le parole giuste. Ogni volta che mi siedo con una
penna in mano, ripenso alla promessa che ho fatto a papà.
Un venerdì, mentre
eravamo seduti negli oliveti occidentali dopo le preghiere della
jama’at, papà mi ha fatto promettere che mi sarei preso cura di te
se gli fosse successo qualcosa. Voleva che tu studiassi, che sposassi
un brav’uomo. Ero troppo ingenuo per pensare che gli ebrei ci
avrebbero invaso di nuovo, ma credo che papà avesse intuito che
sarebbe scoppiata la guerra.
Pensavo che papà ci
sarebbe sempre stato. Non so come mantenere la promessa che gli ho
fatto. Se resto, gli israeliani alla fine mi ammazzeranno. Hanno
tutto il potere e vogliono tutta la terra. Finora, niente è riuscito
a fermarli.
Si sono presi tutto, Amal.
E vogliono ancora di più. Non posso più stare a guardare con le
mani in mano. Ti prego, sorellina, perdonami se parto. Vado a
combattere. Non ho altra scelta. Hanno scritto per noi delle vite che
non sono altro che prolungate sentenze di morte, calvari. Io non
vivrò questo copione.
Se morirò da martire, che
sia. Sii orgogliosa, prega per la mia anima e festeggia il mio
ingresso nel regno di Dio, perché tutti i martiri che muoiono
lottando per la giustizia, la libertà e la terra mi accoglieranno
tra loro.
Qua sono come un uccello
in gabbia. So che anche tu lo sei. Mi si spezza il cuore a non
poterti dare la vita che avrebbe voluto papà. E’ insopportabile
pensare che il nostro futuro sia stato cancellato, condannandoci a
un’esistenza da eterni profughi, fatta di catene e sottomissione.
La resistenza sta
crescendo e alla fine ci riprenderemo ciò che ci spetta. Sei nata
profuga, ma ti prometto che darò la vita, se necessario, perché tu
non muoia profuga.
Devo lasciare mamma alle
tue cure. E’ un fardello terribile per una ragazzina giovane come
te. Ho ceduto la mia parte di officina ad Amin in cambio della
promessa di prendersi cura di te e di mamma. Ti ho lascito anche
tutti i miei risparmi. Li ho dati ad ‘Ammu Darwish dicendogli di
usarli con buon senso, per la tua educazione, se ce ne sarà la
possibilità.
Per favore, tieniti in
contatto con Fatima. Ti vuole bene.
Con affetto, Yussef ».
E’ proprio bello questo
libro di Susan Abulhawa, ‘OGNI MATTINA A JENIN’. Ecco cosa leggo
a pagina 42:
“Meno
di due settimane dopo l’incidente di al-Tira, ci fu una strage di
palestinesi nella vicina Balad al-Shaykh. I venti pestilenziali di
quell’attentato soffiarono su ‘Ain Hod portando con sé un
avvertimento inequivocabile. Mentre notizie di nuove atrocità
raggiungevano ‘Ain Hod, i suoi abitanti furono presi dal terrore di
ciò che li stava per investire. In previsione di nuovi attacchi, le
donne staccarono dai rami prematuramente fichi e uva, li fecero
seccare per avere uva passa e sciroppi, e raccolsero ortaggi per
sostentare le loro famiglie in vista di un assedio prolungato dei
cecchini.
Nel
maggio del 1948 gli inglesi lasciarono la Palestina e i profughi
ebrei che vi erano entrati a frotte si autoproclamarono stato
ebraico, cambiando il nome del paese da Palestina a Israele. Ma ‘Ain
Hod era vicino a tre villaggi che formavano un triangolo non ancor
conquistato all’interno del nuovo stato, e il destino della gente
di ‘Ain Hod si unì a quello di ventimila altri palestinesi che
ancora si aggrappavano alle loro case. Respinsero gli attacchi e
proposero una tregua, chiedendo solo di continuare a vivere sulla
loro terra come avevano sempre fatto. Avevano sopportato molti
padroni – romani, bizantini, crociati, ottomani, inglesi – e il
nazionalismo per loro non aveva significato. Il nocciolo della loro
esistenza era il legame con Dio, con la terra e la famiglia, ed era
questo che volevano difendere e custodire”.
Poche pagine dopo, a
pagina 47, leggete per capire la violenza e il sopruso dell’invasore,
la sua brutalità, la sua cattiveria, la sua ignoranza, la sua
depravazione:
“Darwish
prese i sacchi che aveva sistemato sulla schiena di Fatuma e mise il
loro contenuto accanto all’oro e agli altri oggetti di valore. ‘Il
cavallo! Lascia il cavallo’ ordinò un soldato. Non il dio
dell’altoparlante, ma di sicuro un suo discepolo.
‘Ti
prego!’ Darwish mise da parte ogni orgoglio.
Fatuma
si meritava quelle suppliche, ma le suppliche irritarono il soldato.
‘Taci!’.
‘Ti
prego!’
‘Taci!’
‘Ti
prego.’
Il
soldato sparò due volte. Il primo colpo nella chiazza bianca in
mezzo agli occhi di Fatuma. Cadde morta all’istante. L’altro al
petto di Darwish. La moglie incinta, la nipote di Bassima che era
stata promessa in sposa a Hassan, urlò e gridò accanto al marito
sanguinante mentre la gente si radunava per portarlo in disparte;
qualcuno tirò fuori un barattolo di miele per evitare infezioni e lo
bendò con delle strisce dei suoi stessi vestiti. Il proiettile si
era conficcato nella colonna vertebrale di Darwish condannandolo
all’immobilità, a una vita straziata da orribili piaghe da
decubito, una vita tormentata dal fardello del triste destino di sua
moglie, legata a un marito menomato. Ma anche così menomato, Darwish
avrebbe sempre vissuto nel ricordo del vento e dei suoi cavalli.”
Siamo sempre in quel
fatidico 1948 e tutto, per quel popolo, mutò. Alle pagine 50 e 51
del libro di cui trascrivo stralci per trasmettere una storia, ecco
cosa e quanto il lettore apprende:
“Fu
così che, otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale
dell’esercito del saladino, nel 1189 d. C., a ‘Ain Hod non si
videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero
di generazioni che erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a
quaranta. Fu un compito facilitato dall’usanza araba di chiamare i
propri figli in modo da renderne evidente la genealogia, mettendo
cinque o sei nomi della progenie diretta del bambino nell’ordine
esatto.
Yehya
calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta
generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere
e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di
cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di
pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili
ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di
diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in
quello spazio rimasto libero e l’avrebbero proclamato – con il
suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino –
retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti
e altri angoli del mondo.
Nel
dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò
in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e
anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento
storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e
turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. Gli anziani di ‘Ain
Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le
grossi chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali
compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato
britannico, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito
di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di
ladri”.
Saltiamo un po’ di
pagine di questo meraviglioso libro, delicato, spietato, autentico,
sofferto, e saltiamo un po’ di anni, il 1973, il 1976, fino al
1981.
C’è lotta, lavoro,
tenacia, resistenza, sofferenza, onestà, nel popolo palestinese,
annullato in casa proprio, costretto in tanti campi profughi,
costretto all’esilio.
Amal, una delle
protagoniste, del libro, e della storia, di una delle tante
incredibili storie di questo popolo speciale, ha studiato, a
Gerusalemme, negli Stati Uniti, ed è ritornata a Jenin, poi in
Libano, nei campi profughi. Incontra e rivede i propri famigliari, i
pochi superstiti invero, incontra e conosce altre persone.
“
Bismillah al—rahman
al-rahim
Carissima Amal,
non so bene come
cominciare questa lettera, se non dicendoti che dal giorno in cui
sono venuto a prenderti in aeroporto, non ho mai smesso di pensare a
te. E da quella sera alla spiaggia, hai continuato a popolare i miei
sogni. Ho evitato di venire a Shatila per cercare di fare chiarezza
su quello che provo. Ma ogni pensiero mi porta a questo: sono
innamorato di te.
Ho votato la mia vita alla
resistenza giurato fedeltà alla lotta. Credevo che il mio cuore
fosse troppo pieno di impegni e responsabilità per fare un’altra
promessa. Ma tu mi hai toccato il cuore in punti che non credevo
nemmeno esistessero. E adesso sono costretto a fare un’altra
promessa, questa: Se mi vorrai, ti amerò e ti proteggerò per il
resto dei miei giorni.
Tuo
Majid.”
Amal ora insegna nel
campo profughi libanese di Shatila; Amjid, medico, lavora negli
ambulatori dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut.
Un passo indietro; me lo
consentite?
Di pochi anni, al 1976,
settembre. E’ un mio ricordo personale, di vita e lavoro, di
solidarietà, che mi riportano indietro di tanti anni. Ne parlai
poco, soprattutto dopo la fine di quella esperienza. Ma ora, dopo la
missione, breve, a Ramallah, tutti quei momenti mi ritornano fuori,
nell’animo, nella mente, nel corpo. Mi capitò di lavorare come
medico generico negli ambulatori all’interno di un campo profughi
palestinesi a Beirut; non mi pare fosse né Sabra né Shatila, ma un
altro, altrettanto pieno di bambini, uomini e donne, anziani. La
situazione generale e igienica era analoga a quella che leggo in
questo libro dell’Abulhawa. Mi emoziona, un po’. Ho vaghi
ricordi, purtroppo, ma la gentilezza e la speranza, in tanta miseria
e disperazione, erano doti che rammento di questa fiera popolazione,
che non vuole rassegnarsi alla legge del più forte. Rammento un
pranzo in cui noi, io, l’infermiera che mi e ci assisteva e i
compagni ‘tutori e traduttori’, fummo invitati dai guerriglieri
palestinesi, a mangiare con loro e partecipare la nostra fratellanza.
Un immenso piattone di ‘cous cous’ (o qualcosa del genere) con
pezzi di carne d’agnello, tutti quanti a pescare con le proprie
mani il cibo che ci univa; per bere solo acqua e the. Fu emozionante.
Stetti una settimana nel campo; poi ci riunimmo a Tiro con gli altri
del nostro gruppo.
Capitolo
Ventotto
“SI’”
1981
Ci
incontrammo segretamente due giorni dopo. Majid voleva che gli
rispondessi in privato, lontano dalle voci e dalle aspettative. Fu
così che, nel nostro posto preferito, vicino al pittoresco villaggio
costiero di Tabarja, io e Majid ci abbracciammo per la prima volta.
L’azzurro Mediterraneo lambiva i nostri piedi nudi e si perdeva
all’orizzonte in un cielo senza nubi. Non si capiva dove finisse il
mare e dove cominciasse il cielo e fu in quell’azzurro infinito che
venni toccata dal sorprendente incantesimo dell’amore.
Interrompo la lettura del
coinvolgente e affascinante libro di Susan Abulhava e prendo in mano
il libro di poesie di M. Darwish, IL LETTO DELLA STRANIERA, e ve ne
propongo una:
CANZONE
DI NOZZE
Sono
venuta da te come gli astronauti,
di
pianeta in pianeta. La mia anima
si
apre dalle tue dieci dita sul mio corpo.
Prendimi
a te, porta la colomba
ai
confini del grido sui tuoi fianchi: l’orizzonte
e
l’eco. Lascia i cavalli galoppare invano
dietro
di me, ché non vedo ancora la mia immagine
nella
loro acqua… non vedo nessuno,
nessuno,
non ti vedo. Che ne hai fatto
della
mia libertà? Chi sono dietro
le
mura della città? Non una madre a strofinare
i
miei lunghi capelli con il suo eterno henné,
non
una sorella che li intrecci. Chi sono fuori dalle mura,
tra
i campi neutri e un cielo grigio? Sii
mia
madre nel paese degli stranieri. E portami
dolcemente
verso ciò che sarò domani.
Chi
sarò domani? Nascerò dalla tua
costola,
donna senz’altra preoccupazione
che
decorare il tuo universo? O piangerò laggiù
una
pietra che guidava le mie nuvole all’acqua del tuo pozzo?
Portami
ai confini
della
terra prima che il mattino spunti su una luna
in
lacrime di sangue nel letto. Portami dolcemente
come
la stella porta a sé i sognatori, invano
e
invano.
Invano
guado dietro i monti di Moab.
Nessun
vento a riportare il vestito alla sposa. Ti amo,
ma
il mio cuore vibra del ritorno dell’eco e langue
per
un altro iris. C’è tristezza più ambigua
per
l’anima della gioia della ragazza
per
le sue nozze? E ti amo benché mi ricordi
di
ieri e mi ricordi di aver dimenticato
l’eco
nell’eco.
Eco
nell’eco, sono venuta a te
come
il nome, che passa di essere in essere.
Poco
fa eravamo due stranieri in due paesi lontani,
cosa
sarò dopodomani, quando sarò due?
Che
ne hai fatto della mia libertà?
Più
ti temo, più ti avvicino,
e
non ho meriti, amore mio straniero,
se
non la mia passione.
Sii
dunque una volpe buona tra le mie vigne,
e
con il verde dei tuoi occhi fissa il mio dolore.
Non
tornerò al mio nome e alle mie steppe.
Mai
più,
mai
più.
“Israele
aveva attaccato il Libano per provocare la rappresaglia dell’OLP.
Nel luglio del 1981 gli aerei a reazione israeliani avevano ucciso
duecento civili in un raid su Beirut e Ariel Sharon, l’allora
ministro della Difesa israeliana, aveva annunciato pubblicamente che
avrebbe spazzato via la resistenza una volta per tutte. Quelle parole
pesavano terribilmente su Yussef, che era preoccupato per noi nel
caso in cui gli attacchi israeliani si fossero intensificati.
Proteggere i campi profughi era la priorità. A questo scopo, la
leadership dell’OLP avrebbe finito per stringere un patto col
diavolo per proteggere donne e bambini.
Nell’aprile
del 1982, le Nazioni Unite avevano registrato 2125 violazioni
israeliane dello spazio aereo libanese e 652 violazioni delle acque
territoriali libanesi. Israele ammassò venticinque mila soldati
lungo il confine e continuò illegalmente a eseguire manovre
provocatorie verso il sud del Libano. L’OLP si trattenne dal
compiere ritorsioni e lo stesso fece il governo libanese. Ma Yussef
aveva già capito che Israele avrebbe trovato un motivo per invadere,
indipendentemente dalla reazione dell’OLP.”
Il capitolo 33 del libro
di cui sto raccontando ha questo titolo: IL MARTIRIO DI UNA NAZIONE.
1982.
Ma prima di riportarne
alcune parti, trascrivo quanto letto sul quotidiano ‘la Repubblica’
del 13 luglio: «Palestina. Abu Mazen: “Ricorso a ONU è l’unica
via”. Da Gerusalemme – L’unica via rimasta ai palestinesi per
chiedere il riconoscimento di un proprio Stato è quella dell’ONU
[a proposito, alcuni giorni fa la Nazionale Palestinese ha pareggiato
in casa, a Ramallah, per 1 a 1 con l’Afghanistan, qualificandosi
per il turno successivo in vista dei prossimi campionati mondiali di
Calcio]. Ieri il presidente palestinese Abu Mazen ha commentato così
i risultati della riunione del Quartetto USA, UE, Russia e ONU di
lunedì, che si è conclusa in un nulla di fatto ma che è stata
riconvocata ieri». Il breve trafiletto si conclude citando la
conclusione di Abu Mazen: «”speriamo di andare col sostegno degli
Stati Uniti”. Che finora hanno insistito per una ripresa dei
negoziati diretti, peraltro gli unici che Israele accetta, rifiutando
la legittimità di iniziative unilaterali». Che faccia tosta: e cosa
hanno fatto quegli assassini nel 1948 autoproclamandosi abusivamente
Stato di Israele?! Riprendo la narrazione del libro.
Rilevante e illuminante
questa frase del libro che recita: “ …
Tutta la sua famiglia era stata sterminata durante l’Olocausto.
Ironicamente, ed era un’ironia che mi artigliava la mente, anche la
vera madre di David, mia madre, era sopravvissuta a una carneficina
che le aveva decimato la famiglia. Se non che quest’ultima era
avvenuta a causa del primo, portando alla luce l’inesorabile verità
che i palestinesi avevano pagato il prezzo dell’Olocausto ebreo. …”
“Il
16 settembre, nonostante il cessate il fuoco, l’esercito di Ariel
Sharon accerchiò i campi profughi di Sabra e Shatila, dove Fatima e
Falastin dormivano indifese da Yussef. I soldati israeliani eressero
posti di blocco per impedire l’uscita ai profughi e fecero entrare
nei campi i loro alleati (nazifascisti) della Falange Libanese. I
soldati israeliani, appostati sui tetti, guardavano l’area con i
loro binocoli durante il giorno e di notte illuminavano il cielo con
i razzi per guidare la Falange che passava di baracca in baracca. Due
giorni dopo, i primi giornalisti occidentali entrarono nei campi
profughi e riferirono quel che videro. Robert Fisk scrive nel
Martirio di una nazione:
“Erano dappertutto, per strada, nei vicoli, nei cortili e dentro le
stanze diroccate, sotto i calcinacci e sopra ai mucchi di spazzatura.
Quando arrivammo a cento cadaveri, smettemmo di contare. In ogni
vicolo c’erano cadaveri – di donne, ragazzi, bambini, anziani –
ammassati in gran numero, languidamente, terribilmente, là dov’erano
stati sgozzati o uccisi dai mitra…”.
Non continuo. E’ atroce
ricordare quel massacro di innocenti. E’ vergognoso quanto accadde.
Quanto sta accadendo…
Interessante e drammatico
è pure quanto viene riportato alle pagine 298 e seguenti del
capitolo 38; nel particolare alcuni brani tratti da The Rise and
Fall of Palestine di Norman Finkelstein, ove la stessa stampa
israeliana e le organizzazioni per i diritti umani denunciano
misfatti, violenze, volgarità, crimini dei ‘soliti’ israeliani
sulla popolazione infantile che reagirono con un’intifada scendendo
in strada e scagliando pietre e bastoni, per la rabbia di
un’oppressione che stava durando da vent’anni (1967 – 1987), in
Cisgiordania, a Gerusalemme, a Gaza. E oltre…
“Guardandosi
attorno, gli occhi di David [Ismail, il fratello di
Yussef, ‘rubato’ da un giudeo alla bellissima Dalia, per invidia,
gelosia, egoismo, arroganza] si fermarono su
un disegno dei fondatori di ‘Ain Hod, che si erano stabiliti in
quella regione durante l’Impero bizantino. La leggenda voleva che
il Saladino, Salah al-Din al-Ayyub in persona, avesse donato la terra
a uno dei suoi generali come ricompensa per il valore dimostrato in
battaglia. Quel generale era un mio antenato. Aveva sposato tre donne
e messo al mondo la maggior parte del villaggio.
«Quella
è la nostra bisnonna» dissi, indicando la fotografia color seppia
di una ragazza che sorrideva timidamente, con una thobe ricamata e un
foulard bianco che le incorniciava delicatamente il volto bellissimo.
«Si chiamava Salma Abulheja. La sua bellezza era leggendaria a ‘Ain
Hod, tanto che spesso le bambine del villaggio venivano chiamate come
lei.»
Guardò
in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e
cioè che la loro stoia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei
palestinesi. Quegli uomini arrivati dall’Europa non conoscevano né
l’hummus né i falafel, ma li proclamarono ‘piatti tradizionali
ebraici’. Rivendicarono le ville di Qatamon come ‘antiche dimore
ebraiche’. Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi
che vivevano su quella terra, amandola e coltivandola. Arrivarono da
nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei
cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come se
fossero ‘antiche manufatti ebraici’. Vennero a Giaffa e trovarono
arance grosse come angurie, e dissero: «Guardate! Gli ebrei sono
famosi per le loro arance». Ma quelle arance erano il risultato di
secoli e secoli durante i quali i contadini palestinesi avevano
perfezionato l’arte di coltivare gli agrumi.”
Mi avvicino a chiudere
queste mie note che ritengo assai necessario sapere. Un semplicissimo
commento a un libro, come altri che nell’ultimo anno e mezzo ho
letto, sulla cosiddetta ‘questione palestinese’; un bel libro,
come molti degli altri – ne parlai nei miei notiziari dei mesi e
dell’anno passati (Folia Fluctuantia) - , ed una
‘questione’, quella palestinese, assai facile da comprendere; ma
abbiamo gli occhi velati e il cervello offuscato da una prosopopea e
una propaganda occidentale incredibilmente distorta, fuorviante,
fasulla.
Mi piacerebbe ricordare
quel mese in Libano, nel lontano 1976, ma a suo tempo se ne parlò,
credo assai (magari non io), e forse ora non è il momento: in fondo
Sabra e Shatila non sono altro che l’atto finale di quello che da
alcuni anni stava accadendo, in una Beirut ovest spogliata delle sue
bellezze, rovinata e pericolosa, mentre una Beirut est, ricca e
borghese, era protetta e salvaguardata dalle solite potenze
imperialiste occidentali. O l’esperienza del novembre del 2009, tra
Ramallah e al-Quds (‘ la città santa: Ûrshalîm ‘), che
purtroppo potrei solo ricordare e trasmettervi ma non nei suoi
speciali dettagli, in quanto uno stupido furto nel viaggio italico di
ritorno mi spogliò del mio prezioso taccuino di viaggio, in cui
annotai di tutto, momenti di lavoro, episodi di amicizie, nuove e
inaspettate conoscenze, frammenti di vita… Ma sia pur in poche
righe anche di questo vi ho accennato, mesi addietro, e altrove.
Carissima Amal, con la
vocale lunga di speranza.
A volte l’aria mi
riporta il sospiro dei ricordi. L’aroma degli ulivi e del gelsomino
tra i capelli del mio Amore. A volte porta il silenzio dei sogni
infranti. A volte il tempo è immobile come un cadavere, e con lui
giaccio nel mio letto.
E così dormo, aspettando
di rendermi onore quando sarà il momento.
Perché non avrò tenuto
fede alle mie promesse, ma terrò fede alla mia umanità.
…e l’Amore non mi sarà
mai strappato dalla vene.
Qui concludo. Non credo
serva giustificare atti estremi, cui talora la stampa occidentale dà
eccessivo e deviato e deviante clamore, che invece il lettore attento
e cosciente penso non potrà non avere compreso perché c’è un
limite, nell’animo umano, alla sopportazione di una violenza ben
più ampia, grave ed esasperante.
Daniele
Crotti
Daniele Crotti
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