22/12/2024
direttore Renzo Zuccherini

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Chi ha paura di ascoltare i cittadini?
Perché chi ci amministra non considera l’apertura dei processi decisionali ai cittadini un modo serio e pertinente per avvicinare istituzioni e società civile?
Partecipazione. Sta diventando una parola abusata.
Se ne parla sempre più spesso perché se ne sente la mancanza? Sembrerebbe un paradosso nella terra delle assemblee deliberanti di Capitini, dei manicomi aperti di Manuali e Rasimelli, del bilancio (di fatto) partecipato di molte amministrazioni umbre del passato.
Se ne parla sempre più spesso perché si registra una generale crisi degli strumenti democratici e dei soggetti che vi prendono parte? Sembrerebbe una constatazione anche nella dimensione locale, ove cambiamenti  sociali e ambientali, economici e tecnologici sollecitano mutamenti nelle organizzazioni, procedure, prassi dell’agire politico.

Se ne parla sempre più spesso perché non c’è condivisione sul significato del termine “partecipazione”? Sembrerebbe una preoccupazione in una regione che ha fatto della “concertazione” un metodo di governo,  che rinnova l’esperienza del Patto per lo Sviluppo  in “Alleanza”,  che richiede efficienza  a chi governa, ma non avverte l’esigenza di rinnovamento nei rapporti tra le istituzioni ed i cittadini.
Certo è che i pubblici poteri oggi si trovano ad agire come organizzazioni complesse, capaci sì di decisione politica, ma operanti a fianco - e non più sopra, o prima - rispetto alle altre organizzazioni e agli altri attori presenti nei diversi contesti in cui si pone la questione della trasformazione del pubblico in comune; come è certo che gli strumenti  più tradizionali ed istituzionali di coinvolgimento degli attori locali stanno mostrando tutti i loro limiti a fronte della accresciuta sfera di autonomia e responsabilità di ciascun individuo od organizzazione e della riconosciuta crisi di rappresentatività dei cosiddetti “corpi intermedi” (partiti, sindacati, organizzazioni datoriali), non più in grado di soddisfare interessi che, precedentemente, erano affidati alle cure del potere politico/amministrativo.
Da parte dei cittadini è così cresciuta, drammaticamente rispetto al passato, l’esigenza di farsi sentire, di partecipare, di rappresentarsi, di esserci. E’ un fenomeno evidente nella prassi: pratiche, manifestazioni e soluzioni concrete sono attivate da singoli o gruppi in forza della loro autonomia e delle competenze che riescono ad esprimere. Offrono ai territori una ricchezza enorme in termini di conoscenze, relazioni sociali, capacità di critica, tutela del bene comune.
Ma sono visti come un nemico dalla politica che non ascolta, e non ascoltando delude, soprattutto quando il non-ascolto è dovuto a confusione, ad accenti ideologici e retorici, ad interventi autoreferenziali ed atteggiamenti arroganti che finiscono per produrre risultati inattesi o contrari alle aspettative. Perché?

Perché ostinarsi a mantenere partecipazione e ruolo di rappresentanza politica in relazione di rivendicazione e conflittualità, anziché di complementarietà?
Perché chi ci amministra non considera l’apertura dei processi decisionali ai cittadini – mediante l’impiego di metodi e strumenti appropriati – un modo serio e pertinente per avvicinare istituzioni e società civile?
Perché chi eleggiamo a rappresentarci teme che i processi decisionali inclusivi tolgano autorità e potere, e non considera che potrebbero introdurre autorevolezza e legittimazione?

Sarebbe interessante aprire un confronto serio su queste domande, che tuttavia presuppone un chiarimento su cosa si intenda per partecipazione, perché più ancora della previsione di forme di vera e propria co-decisione (sempre pericolosamente protese verso dinamiche di tipo concertativo, e come tali non inclusive), chi ci amministra ed intende promuovere politiche pubbliche di qualità dovrebbe da un lato mirare alla costruzione di luoghi ed istituzioni aperti in cui ogni persona trovi ascolto, e dall’altro apprestare garanzie per assicurare un’adeguata considerazione dei risultati della partecipazione.

Istituzioni aperte – alla condivisione di regole e priorità -  e garanzie adeguate – a valutare la qualità delle scelte e la capacità dei decisori -  presuppongono affermazione del principio di competenza e trasparenza dei processi decisionali, degli interessi sottesi, dei criteri di scelta. Altrimenti si corre il rischio di continuare a contrapporre  soggetti forti e soggetti deboli, con una quasi inevitabile conseguenza: i soggetti forti avranno le risorse per organizzarsi e diventare forme diverse e ulteriori di potere capaci di contrapporsi come struttura alternativa o antagonista a un’autorità politica sempre più evanescente, inadeguata alla raccolta di consensi e quindi sempre meno rappresentativa; gli interessi dei singoli e delle piccole comunità resteranno orfani di qualsiasi rappresentazione e considerazione, profilandosi come naturalmente recessivi, e quindi destinati inevitabilmente a soccombere. Nell’interesse di chi?

Fabiola De Toffol – project manager indipendente e facilitatore di processo

Inserito venerdì 22 luglio 2011


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