16/07/2024
direttore Renzo Zuccherini

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Camminare per Perugia: cercare luoghi pubblici e tempo da dedicare al camminare
per difenderci dall’erosione del paesaggio, della città, della mente e del corpo


Intervento alla presentazione del volume  di Renzo Zuccherini, “Fabbriche in città” (Era nuova ed., Perugia 2008), Umbria Libri, Rocca Paolina, 5 novembre 2008.

   Fabbriche in città è un opuscolo dei CamminaPerugia, e vorrei iniziare dal camminare che, forse perché è la prima cosa che ci hanno insegnato a fare i nostri genitori, siamo portati a considerare un’azione ovvia, un semplice spostarsi da un luogo ad un altro; invece c’è una relazione profonda tra la storia dell’andare a piedi e la storia del pensiero, proprio per questo dobbiamo chiederci che senso abbia andare a piedi, uscire da uno spazio chiuso e iniziare a camminare nelle città o nelle campagne, in mezzo ad una marcia di protesta o da soli.
   Gli uomini, camminando, hanno generato concezioni di spazio locali, continentali e transcontinentali; creato sentieri, strade e rotte commerciali; dato forma a città e paesaggio; prodotto mappe, guide, attrezzature. Camminare ha permesso all’uomo di colonizzare gran parte del mondo, ha fatto sì che s’incontrassero popoli di culture e lingue diverse, la Chiesa per divulgare se stessa si è messa “in cammino”, in questi giorni Barack Obama ha realizzato il sogno di Martin Luther King iniziato con le marce dei neri americani, Capitini con la Marcia della pace ha tentato di dare concretezza alla sua azione non violenta.
   Nonostante ciò, lo spazio pubblico delle città odierne, della nostra città, non è più programmato sull’uomo, è sempre di più abbandonato a se stesso, eroso; eclissato da interessi economici e un’organizzazione di vita che non contempla più l’uscire a piedi da casa. Quello che un tempo sarebbe stato spazio di tutti ora è destinato ad accogliere automobili, i centri commerciali sostituiscono le piazze, i marciapiedi, quando ci sono, sono sempre occupati dalle auto e, in ogni caso, sono così stretti che a malapena si possono percorrere in fila indiana rendendo impossibile lo scambio di due parole tra i pedoni, termine, quest’ultimo, destinato a sparire dai vocabolari.
   Chi abita nelle villette delle nostre colline non è che se la passi meglio, ovunque muri, barriere, cancelli. I proprietari, con le recinzioni rinforzate da teli di plastica verde, requisiscono il paesaggio anche a se stessi, della loro casa dicono orgogliosamente “entrato io entrati tutti”, ma è un io che esclude tutti, impedisce agli altri di gettare lo sguardo dentro la loro proprietà, ma anche a se stessi di guardare gli altri. L’esatto contrario del “tu-tutti” di Capitini che con il suo “tu” includeva tutti, parlava ad uno perché attraverso lui parlava a tutti, ascoltava uno perché gli parlava di tutti.
   Quando lo spazio pubblico scompare, spariscono le relazioni, le vie e le piazze senza pedoni diventano tristi, sconosciute, a volte pericolose. Credo che non sia un caso se nelle megalopoli del Nord Italia e nella distesa di capannoni che le circondano vivano il malessere del benessere, malessere del benessere che genera egoismo e paura, paura ed egoismo che generano il leghismo, leghismo che, a sua volta, alimenta il razzismo. Così come la distruzione delle coste e del paesaggio perpetrato nel Meridione dalle mafie, non solo corrode, corrompe e sporca imprenditori, politici ed ambiente, ma inquina anche l’anima dei semplici cittadini.
   A mio parere, non è nemmeno un caso che Perugia sia diventata una delle capitali dello spaccio di stupefacenti del Centro Italia. Se si trasforma il Centro storico in un “divertimentificio” che la notte richiama giovani da tutta la nostra provincia e dalle province confinanti; se si crea una massa enorme di persone impenetrabile ai residenti, alle ambulanze, alle auto delle forze dell’ordine, ma non agli spacciatori che vi possono muovere come “pesci nell’acqua”; se si concede l’autorizzazione a costruire una miriade di miniappartamenti non adatti alla vita delle famiglie ma a quella di chi vive d’espedienti; cosa volete che poi succeda?
   Allora, per difenderci da quest’inarrestabile erosione del paesaggio, della città, della mente e del corpo di chi vi abita, occorre cercare luoghi pubblici e tempo da dedicare a quella semplice attività che ci fa vivere i quartieri senza ignorarli e senza ignorarci: camminare.
   Dobbiamo aver presente, anche grazie ai CamminaPerugia, che o facendo il giro dell'isolato o quello del mondo sommiamo il nuovo al noto; che andare a piedi ci lascia liberi di pensare senza perderci totalmente nei pensieri, aiuta a ricordare i colori, i sapori e gli odori di una volta ma cattura, anche, odori, sapori e colori d’oggi, che muoversi per le strade della nostra città è come sfogliare le pagine di un libro che racconta di coloro che queste strade hanno percorso, di chi le sta percorrendo e di chi le percorrerà.
   Pasolini ha scritto “Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose”. Grazie a Fabbriche in città, non solo ho seguito l’itinerario suggerito, mi sono immaginato a gironzolare solo per Perugia cercando le fabbriche in quella che una volta era la “zona industriale”. Provate a farlo, vi accorgerete, per dirla alla Celentano, che là dove c’erano fabbriche, ora c’è una città. Le industrie, tranne rare eccezioni, non ci sono più, alcune si sono trasferite, la maggior parte sono svanite.
   Gli stabilimenti sono spariti, ma non sono scomparsi gli operai: quelli ci sono, stanno dentro i centri commerciali, le concessionarie, i capannoni e i magazzini; quella che è sparita è la classe operaia, mentre salda, unita c’è ancora la loro controparte, una classe padronale consapevole della propria forza, sprezzante e cinica verso i suoi dipendenti. Ditemi se non è sprezzante far lavorare operai sotto il ricatto di questa frase: “Se non ti sta bene quella è la porta, ne trovo quante ne voglio di persone pronte a prendere il tuo posto”?
   Ed allora ha fatto bene Renzo a parlare in Fabbiche in città della mutualità operaia e dei primi sindacati, a riprodurre la foto di Furio Rosi socialista e sindacalista della prima ora, morto in esilio per sfuggire ai processi politici sabaudi. Al Camposanto di Monteluce, in quel luogo della pietà laica attorno al sepolcro dei martiri del XX Giugno, c’è la lapide che ricorda Rosi: sotto il fascismo, mani libere non vi hanno mai fatto mancare un fiore (un garofano rosso il Primo Maggio). Ma Zuccherini avrebbe potuto mettere nel suo libro la foto del tipografo socialista Gustavo Castellini, quando per lui era festa - quindi anche il Primo Maggio - aveva sempre un garofano rosso all’occhiello, fermo antifascista volle che sulla sua tomba fosse scritto: “Dal profondo del feretro s’eleva l’inno della speranza”. E, almeno nel cuore, portavano un garofano rosso quei pochi antifascisti perugini che assieme a Capitini festeggiavano il Primo Maggio nel magazzino di legnami di Enea Tondini, così come di garofani rossi riempiva il monumento al XX Giugno Brenno Tilli. Ricordo benissimo che il Primo Maggio gli operai di Perugia, quelli che lavoravano nelle fabbriche del libro, s’incontravano in Piazza. Parlavano di Coppi e Bartali, del Perugia e di pugilato. Portavano un garofano rosso all’occhiello: era un modo per riconoscersi come classe, di rivendicare la propria dignità, la dignità che nasce dal lavoro.
   Non ha caso ho citato Capitini e il XX Giugno. Capitini perché pensava a Perugia come una nuova Gerusalemme dalla quale divulgare il suo pensiero non violento e il potere di tutti, come si dice adesso, era glocale: sentiva profonde le sue radici e contemporaneamente pensava all’Italia ed al mondo. E al XX Giugno perché, tra i monumenti risorgimentali, è unico nel suo genere: vi sono scolpiti semplici popolani. Tra i popolani perugini morti due sono “ponteggiani”, uno di Ponte Felcino (Meniconi) l’altro di Ponte San Giovanni (Cestellini).
   Penso, per finire, che come Capitini, Meniconi e Cestellini, dobbiamo aver a cuore tutta la nostra città; e ritenere che il problema di un quartiere di Perugia, della vecchia o nuova Perugia, sia il problema di tutti. Bisogna che la Perugia di Perugia (del Centro storico e dei quartieri ad esso attaccati), quella dei Ponti e quella di San Sisto non siano estranee l’una all’altra, ma si cerchino, camminino l’una verso l’altra.
   Solo difendendo, con le “unghie e con i denti”, tutte le strade, tutte le piazze e tutto il paesaggio del nostro Comune, solo individuando e costruendo percorsi salutari, antitetici ai percorsi patologici che ci hanno imposto i “signori del cemento”, si potrà ricamminare per Perugia convivendoci insieme e non semplicemente abitandoci. Se si riallacceranno i legami tra i Perugini, vecchi o nuovi che siano, Perugia ritroverà un’anima e racconterà anche a noi le sue storie così come le ha raccontate al più grande poeta dialettale perugino, il sindacalista Claudio Spinelli:
   …da mill’ e mill’ anni ch’è criata
   le storie ch’èn successe, bell’ o brutte,
   ta me Perugia me l’arconta tutte.
  



Vanni Capoccia

Inserito lunedì 17 novembre 2008


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