14/08/2024
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I giochi di "quando eravamo"
Ora molti di questi giochi, di queste cose, non ci sono più. Le vogliamo riscoprire? Riproporre? Ritrovare?

 
 
Leggendo un libro di memorie.... 'Vita Contadina. Tradizioni a Poggio di san Costanzo', di Leandro Papi, Andrea Livi Editore, Fermo, 1996:
 
Il ruolo dei bambini
 
Oggi, lo sappiamo tutti, i bambini, ma anche i ragazzi e i giovani non sanno come ammazzare il tempo, si annoiano maledettamente. Allora s'inventavano sale-giochi, palestre, piscine, società sportive e non so quant'altro. In quel periodo là non c'era bisogno d'inventare nulla: era già stato inventato tutto. Anche i bambini lavoravano o, per meglio dire, collaboravano con i genitori. Avevano le loro mansioni specifiche da assolvere: pascolare le pecore, portare l'acqua alla gente in campagna, acqua che andavano a prendere lassù alla fontana con un fiasco, raccogliere le spighe dopo la mietitura, "toccare  la vetta", quando la terra arida e compatta necessitava di due paia di mucche davanti all'aratro e tanti altri piccoli servizi, "le mmsciatelle", di cui c'era bisogno. Tuttavia pure i bambini avevano il tempo per i loro giochi. Maschietti e femminucce ovviamente giocavano assieme, si notava però un innato indirizzo diverso. Le bambine preferivano quelli di movimento e di fantasia, i loro coetanei quelli di costruzione. Voglio dunque ricordare come ci si divertiva una cinquantina di anni fa e comincio dalle bambine.
 
ANGELO BELL'ANGELO: un gruppetto di angeli, la Madonna che li chiama in Paradiso e un diavoletto che li vuole all'Inferno, colpendoli con una palla di stracci.
Madonna: angelo bell'angelo, vieni da me.
Angelo: c'è il diavolo, non posso venire da te.
Madonna: apri le ali e vola.
La bambina parte di corsa. Il diavoletto le lancia una palla. Se non la colpisce va in Paradiso, in caso contrario all'Inferno. Quella colpita per prima diventa diavoletta e il gioco ricomincia.
 
Non lo conoscevo questo gioco all'aperto.
 
LA CAMPANA: un grande rettangolo disegnato per terra, con una riga verticale e altre orizzontali. Si saltava da uno scacco all'altro con un piede  solo, girando intorno a zig zag, a volte spingendo un sassolino.
 
Io ho giocato pochissime volte a questo famosissimo gioco. Da noi erano le bambine a farlo, di solito.
 
"A 'CCIUUTTILLU": il gioco il gioco più comune era quello con i sassolini, i piccoli ciottoli. Si prendevano cinque ciottolini abbastanza rotondi, non troppo grossi da essere contenuti in una manina, non troppo piccoli da poterli raccogliere con facilità. Due bambine si sedevano a terra una di fronte all'altra. Si disponevano quattro sassolini a quadrato, si lanciava in aria il quinto, se ne raccoglieva velocemente uno e si riacchiappava al volo quello lanciato. Si ripeteva quindi la stessa operazione pendendone due, poi tre, poi quattro. Chi sbagliava, passava la mano. C'erano da superare altre difficoltà, che non ricordo bene.
 
Ecco, quest'ultimo gioco lo rammento bene. Ricordo alcune delle difficoltà cui lo scrivente accenna. Rammento che s'era d'estate; s’era nel primo pomeriggio. Al nostro villaggio, quello ove non nacqui ma vissi diciotto anni. Si cercava l'ombra agli angoli della casa e si giocava. Sassolini o nocciole, noi utilizzavamo. Spesso eravamo in sei. Perla, Nicoletta e Claudia, le cugine di Stefania; abitavano nel ravennate e colà venivano a trovarla per alcuni giorni nei mesi estivi, a scuola finita. I tre maschietti erano Gino, Sandro ed il sottoscritto, Nene. Che fossero i tempi della scuola media?
 
I maschietti, dicevo, preferivano giochi di costruzione.
 
"LU SHJUPPUTTU": un fuciletto di canna, innocuo. Si prendeva un pezzo di canna con tre nodi: uno si tagliava e dal secondo in avanti era "la canna del fucile". Vicino al secondo nodo si ritagliava una stretta fenditura di circa tre centimetri. Di sotto, sempre vicino al nodo, si praticava un forellino. Dalla parte della fenditura, vicino al nodo opposto, s'intagliava un buco in diagonale. Per completare il lavoro ci voleva una bacchetta di acero che è diritta e flessibile. Assottigliata, se necessario la parte grossa, veniva fermata nel buco inciso in diagonale vicino al nodo. Bisognava poi incurvarla quasi ad elle, dopo averla recisa a misura giusta, e farne penetrare la punta nel foro attraverso la fenditura. A questo punto il “fucile” era pronto. Mancavano le munizioni. Si usavano pezzettini di un paio di centimetri di un’altra bacchetta. Messo “il proiettile” in canna, si faceva pressione con il dito da sotto, l’archetto scattava lungo la fenditura e lo schizzava lontano qualche metro. Era il primo giocattolo che il papà costruiva per il suo bambino. In seguito avrebbe fatto da solo.
 
Non sapevo di questo marchingegno. Il nostro consimile poteva essere la cerbottana, assai più semplice da costruire ma con la quale ti ci potevi sbizzarrire nel suo uso e gioco. Oppure la fionda. Non era così facile trovare il pezzo di legno a ipsilon (Y) tra i rami dei cespugli, delle siepi, dei piccoli alberi. Poi lo lavoravi col coltellino, lo plasmavi secondo il tuo gusto, avendo cura di intarsiare le parti superiori, ossia i lati, della Y, per poi inserirvi l’elastico che veniva in genere legato con lo spago. L’elastico lo ricavavamo dalle camera d’aria delle nostre biciclettine o delle nostre biciclette, quando più grandi. Il ricettacolo per il sassolino, o altro, che si doveva poi lanciare, era un pezzo di cuoio, con due fenditure ai lati, entro le quali prima di legarlo ai bordi superiori dei due lati del legno a Y facevamo passare l’elastico. A volte erano fionde niente male.
 
“LU SCARCAVOZZU”: ossia, lo scaricabossoli, per ragazzetti che si costruivano da soli. Era il prototipo del fucile ad aria compressa. Si segava un tronchetto di sambuco di una ventina di centimetri da un ramo non troppo giovane. Il sambuco ha “l’anima” morbida, però nel ramo giovane occupa quasi tutto lo spazio interno e non va bene. Si può tirar via facilmente con un pezzo di fil di ferro e rimane un foro perfettamente rotondo. Ora si trattava di preparare uno stantuffo con un rametto diritto di olmo o di acero. E qui ci voleva pazienza e capacità. Lasciato lo spazio per il manico, con un coltelli no si doveva praticare un’incisione abbastanza profonda intorno e sgrossarlo ben bene da entrare nel foro del tronchetto, ma un centimetro più corto. Come munizioni noi usavamo un ciuffo di canapa, ma è sufficiente un pezzo di spago sfilacciato, ammorbidito con la saliva. Arrotolato a forma di pallina, si cacciava con forza nel foro, si spingeva con lo stantuffo fino in fondo alla “canna” (ecco perché doveva essere più corto) e se ne preparava un’altra allo stesso modo. Con una tavoletta sullo stomaco sostenuta dalla cintura, vi si puntava il manico dello stantuffo e, afferrato strettamente il tronco di sambuco, si tirava velocemente indietro. Con un colpo secco, spinta dall’aria della seconda, la prima pallina “sparava”, mentre l’altra rimaneva in canna. O la si ritrovava o se ne preparava ancora una. Questo “fucile”, pur avendo proiettili di canapa, se prendeva da qualche parte, faceva più male di quello di canna per la velocità del colpo.

Io non ho mai costruito fucili siffatti, né tanto meno fucili (se si esclude, forse, un pezzo di legno strano con cui fingevi di sparare sul ‘tuo nemico’ dicendo ad alta voce: pam pam pam…, ma si era ancoa dei bimbettti). Ho avuto, sì, fucile, ma mi fu regalato tal quale, già pronto. Facevo le scuole medie? Tirava, premendo il grilletto, palline di gomma. Io lo utilizzavo a fine primavera, inizio estate, per cercare di colpire merli o altri uccelli che venivano a mangiare le amarene dal nostro ‘prezioso albero’, sotto in giardino. A parte quella volta che sparai sul… culo a mia sorella…! Se mai, si costruivano, più semplicemente, più facilmente, più rapidamente, gli archi e si facevano le frecce. A volte venivano bene e funzionavano a dovere. Li usavamo, penso, quando giocavamo a indiani contro cowboys (io Marco e Gianluigi eravamo i pellerossa; Gino, Lorenzo e Luca i visi pallidi). Ovviamente preparavamo anche la tenda indiana e la capanna dei cowboys; e tutto con le nostre mani. E… reggevano, e bene!

“LA FREZZA”: è la fionda per i ragazzi più grandi, anch’essa fabbricata dallo stesso possessore. La fionda si compone di tre parti: la forcina, gli elastici e il cuoio per le munizioni. Per la forcina si ricorre ad un rametto del solito acero che presenta biforcazioni quasi perfette. I più esperti, prima di tagliarla a misura giusta, la mettevano a bollire per renderla più pieghevole, poi, con un tronchetto in mezzo, legavano a forma arrotondata i due rametti. Seccata al sole e rifilata, si presentava con le punte leggermente voltate in dentro. Per mirare meglio, dicevano. Due tacche da entrambi i lati per legare gli elastici e ripulita dalla corteccia, era pronta. Come elastici si usavano due strisce di una vecchia camera d’aria d’auto che, essendo allora di gomma vera e non sintetica, erano molto estensibili. Mancava il cuoio per il sasso. Se ne tagliava un rettangolino da una scarpa vecchia. Si praticavano due fori vicino ai lati più corti ed era pronto anch’esso. Il tutto veniva assemblato legando le varie parti con sottilissime strisce ricavate dalla stessa gomma d’auto e la “frezza” era pronta. Con la tasca piena di sassolini, si andava a caccia. I bersagli più frequenti erano gli isolatori di porcellana dei pali della luce che correvano lungo tutta la collina.

Ecco che ritorna la fionda. Beh, più o meno che come l’avevo descritta io nei miei ricordi. Non rammento invece dei bersagli fissi o preferiti, a parte quella volta che… ma meglio non dirvelo, fu così stupida e pericolosa.

“LU CARRITTU”: l’oggetto più ambito da tutti noi ragazzini era il carrettino a quattro ruote, costruito  anch’esso a regola d’arte. Con tutte le discese che c’erano, ci si poteva scapicollare quanto si voleva. Le cadute erano tutte le nostre e le ferite anche. Rovesciarsi a velocità elevata e raspare le pelle nel ghiaietto della strada, significava ritrovarsi sulle ginocchia e sulla schiena grosse escoriazioni lunghe a guarire, per il fatto che non venivano disinfettate se non con l’acqua e con… la nostra pipì (così veniva consigliato). Anche per la costruzione del carretto ci voleva la sua tecnica. Si prendeva un tronchetto appena, lungo poco più di un metro e si legava stretto con due o tre giri di ferro un po’ spostato dalla metà. La parte più corta si spaccava in mezzo e si allargava (la legatura era necessaria perché lo spacco non andasse oltre). Tenute aperte quelle due specie di corna, vi si inchiodavano alcune tavolette per sedersi. Di sotto, con chiodi o viti, si fissava ‘sala’, l’asse per le ruote posteriori, dopo la dovuta sistemazione. Segnato, alle due estremità uno spazio superiore allo spessore delle ruote (doveva avanzare un pezzettino per un chiodo verticale da non farle uscire durante la corsa), si segava attorno attorno, poi con colpi verticali di un falcione, s’impiccioliva, si arrotondava, si raspava, da formare un perno per le ruote. Le ruote che si ricavavano da quattro fette di un tronco rotondo di grandezza non eccessiva, venivano forate al centro con la trivella. Si preparava poi un altro asse come il precedente, lo si forava al centro, un altro foro sulla punta del tronchetto, si univano i due pezzi tramite una vite non troppo stretta, da lasciare gioco per lo sterzo, venivano montate le ruote fermate da un chiodo senza testa per evitare lo strofinio e il carretto era pronto. Come volante si usava un cordino fissato vicino alle ruote anteriori. Tirando da una parte, l’asse si metteva in diagonale e le ruote curvavano. Non essendoci “il differenziale”, nelle curve a forte velocità il carretto si rovesciava e le conseguenze erano le solite.

Già, da noi, o, meglio a Perugia, era chiamato il carrozzone. Allora vivevo alle Groane, il piatto (o quasi) altopiano a nord della città di Milano. Non si conosceva, là, il carrozzone. Probabilmente vi erano altre alternative (ricordo, erano i tempi delle scuole elementari, che io e Ginetto costruivamo una sorta di carrellino, come non rammento, che agganciavamo dietro alle nostre biciclettine, carrettino nel quale mettevano giornaletti e giochi vari per portarli in giro e metterli in vendita, con tanto di targa: ACNA 1 e ACNA 2). Ma torniamo al carrozzone. Io lo conoscevo perché ogni estate, o quasi, ero a Perugia, dal nonno paterno. Abitavamo a Monteluce, in via Fra’ Bevignate, e lungo quella bella discesa (da tempo a senso unico in salita, ma allora, con pochissime vetture il senso era alternato) io ed i compagni di giochi di allora (ricordo Sandro, Fernando, in modo particolare, anche perché rivisti tanti anni dopo in ospedale sotto altre spoglie) si scendeva  col carrozzone, correndo, facendo inevitabile gare di velocità. Questi i nostri carrozzoni. Dico nostri anche se probabilmente io li trovavo già preparati; non rammento infatti quanto partecipassi alla sua costruzione; se mai a riaggiustarli. Di questi carrozzoni, che sembrano così complessi, io ricordo solo che le ruote erano fatte con i cuscinetti a sfera (tanti allora, infatti, si potevano trovare e non so se sottratti a qualcuno o a qualcosa e se acquistati con la paghetta dataci dai nostri genitori). Se la memoria non mi tradisce, allora, vi erano anche gare ufficiali (o quasi) con questi memorabili carrozzoni. Esisteranno ancora da qualche parte del mondo?

Ho raccontato solo alcuni dei passatempi dei bambini di allora. Oggi, sia in campagna, ma tanto più in città, giochi e giocattoli vengono comprati bell’e fatti ed è un vero peccato, perché è stato perso l’uso della mano creativa.

Ma quanti quanti giochi e giocattoli si ‘facevano’, allora, da soli. Certo, già allora alcuni erano regalati, penso al meccano, penso a ‘Ventimilaleghesottoimari’, a ‘Monopoli’, ma erano poi da noi variamente modificati. Però gli aquiloni li cercavamo di fare noi, le capanne erano frutto del nostro spirito di iniziativa, le figurine… Sì, le figurine. Perché non finiva nell’acquistarle, nel cambiarle, nel cercarle; ma ci si giocava pure. Certo. Per esempio con le piastrelle che noi, al nord, chiamavamo ‘sgiolle’ (o qualcosa del genere); si cercava il piombo per le campagne, vicino ai cantieri, sotto i pali della luce, insomma un po’ ovunque (non era difficile reperirlo), lo fondevamo e creavamo le nostre solide e quasi perfette piastrelle (a scuola durante le ricreazione ci accontentavamo di adeguati sassoni piatti e consoni alle nostri mani). Ci servivano anche per giocare alle figurine. Ognuno di noi poneva una o più figurine su un posto, una o più, le une sopra le altre, ed in due, tre o più bambini o ragazzi, tiravamo le nostre ‘sgiolle’ e chi più si avvicinava al mucchio delle figurine se le conquistava tutte (va da sè che mettevamo i doppioni e, soprattutto, quelli ‘più facili’ da trovare nelle buste che all’edicola prima della scuola, compravamo una o due (di rado di più) alla volta).


Ora molti di questi giochi, di queste cose, non ci sono più. Le vogliamo riscoprire? Riproporre? Ritrovare?
Da alcuni anni a Verona, hanno ‘ideato’ il ‘Tocatì’, un Festival Internazionale dei Giochi di Strada che si svolge nelle vie e nelle piazze della città veneta (www.tocati.it); non ci sono mai andato, ma mi attirerebbe, lo confesso. Da qualche hanno posseggo un bel libro che mi ha aiutato a ricordare e rivivere quei momenti lontani e meravigliosi della fanciullezza: ‘Il giardino dei giochi dimenticati. Manuale di giochi in via di estinzione’, di G. F. Reali e N. Barbiero per la Salani Editore (I ed. 2002). E’ sempre fisso sulla mia scrivania e di tanto in tanto lo consulto. Di recente ho acquistato (non ricordo dove) quest’altro simpatico libro corredato anche di foto ‘d’epoca’: ‘Giochi e passatempi dei ragazzi di ieri’; è edito da ARCA ed è stato scritto da A. Giustarini (pressoché un mio coetaneo), grossetano (area dell’Amiata), nel 1984 ma io ne ho acquistato la II edizione nel 2009. E’ pur’esso assi emozionante.  Ancora: nell’inserto ‘Il venerdì’ di ‘Repubblica’ tempo fa ho ritagliato una pagina che parlava de… ‘I giochi’, per l’appunto che principiava con queste tre parole: astuzia, riflessi e movimento. Vi si accenna ad alcuni giochi, alle loro principali regole e alla loro funzione (ebbene sì, alla loro funzione). Venivano citati: campana, uno due tre stella, regina reginella, quattro cantoni, ruba bandiera, strega comanda colore; questi li facevo anche io da piccolo, li facevamo anche noi. Altri invece non li conoscevo o sono passati nel dimenticatoio (succede, e come!); eccoli: l’igrometro, l’erbario, lupo mangia frutta.
Che tutto questo possa servire, anche a recuperare l’infanzia, la fanciullezza che oggi giorno è negativizzata da quanto tutti noi sappiamo?




Daniele Crotti

Inserito lunedì 21 febbraio 2011


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