I beni comuni ripensano la democrazia
da Il Manifesto del 26 novembre 2010
Se il capitalismo è
basato sul predominio della proprietà individuale, per cambiarlo occorre partire
da un diverso concetto (e una diversa pratica) della proprietà.
Un nuovo spettro si aggira sul mondo:
la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a
riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso. Altri
sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova
tra le popolazioni indigene delle foreste dell'Amazzonia e nei Free Culture
Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle
innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per
una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che
fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l'acqua pubblica e per la
giustizia climatica. Rivendicano l'accesso alla conoscenza, la sovranità
alimentare e non solo, l'autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei
propri desideri. I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli
studi del primo premio Nobel donna per l'economia Elinor Ostrom. Sono entrati
nelle Costituzioni nazionali grazie all'Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e
studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato
un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne
occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione
Heinrich Böll Stiftung: " Costructing a Commons-Based Policy Platform", che si è
svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale
reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su:
youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e
attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer. Cosa accomuna
questi movimenti? La scoperta dell'esistenza di beni naturali, cognitivi,
relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium.
Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui
tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari,
basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione
di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che
nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi
il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem
service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di
vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni
cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici,
saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il
sole, l'aria, il territorio, le parole... non sono solo pannelli fotovoltaici,
turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività
sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti
anch'essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di
ciascuno di noi. Chi decide quali sono i beni comuni? L'attività stessa di
commoning (come l'ha battezzata Peter Linebaugh), le pratiche di cittadinanza
attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse,
servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società
stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza
naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l'acqua. A dicembre a Cancun sarà di
scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà
di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben
scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo
pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società
che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di
civiltà e di senso che stiamo vivendo. Il riconoscimento, la rivendicazione
e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui
siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e
lavoro non sono più utilizzabili come "carburante" nei processi di produzione e
di consumo, fattori da sacrificare all'imperativo della massima resa del
capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che
deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il
più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare,
l'entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana,
consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all'altrui
benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a
partire da un cambio di modello dell'idealtipo umano assunto come riferimento da
qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a
consapevole, cooperante. Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società
dei beni comuni. Essa richiede una salto nell'orientamento del diritto: gli
oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente
dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che
presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non
disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un
tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L'orizzonte del
diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione.
Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la
rinuncia al dominio assoluto dell'uomo padrone e signore sulla natura. La vita
sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le
scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il
meccanicismo. Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica,
in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro
afferenti. Un'idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di
proprietà. Nessun "interesse generale", nessuna "maggioranza", nessuna
"superiore razionalità tecnica" può giustificare il dominio su altri, la
distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo
ognuno di noi. Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi
si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha
un'idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato
Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori
del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste
giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di
industriali che saccheggiano l'ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano
di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di
fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al
giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si
smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il
quadro liberal-democratico all'interno del quale il capitalismo compie le sue
rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l'idea della
gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto
dell'alternativa possibile.
Paolo Cacciari
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