Il Novecento che se ne va
Pietro Scarpellini è stato l'esponente più autorevole e raffinato come un cristallo di quel movimento che nelle stanze del potere continuano a chiamare "il partito del no"
Non è vero che i secoli finiscono quando lo dice il calendario. Quella del calendario è solo una convenzione, una comodità come tante altre. Il Novecento è stato, si dice, un secolo breve, nato in ritardo e scomparso prima del previsto. Il fatto è che i secoli li benedice la grande storia ma anche le tante piccole storie degli uomini così che, in fondo, ognuno di noi può conservare nelle tasche della memoria un proprio calendario personale. E' così che il Novecento se ne va poco a poco ogni volta che scompare chi ha contribuito a scriverlo con la propria stessa vita. Pietro Scarpellini è stato un pezzo del nostro Novecento a Perugia e, certo, non solo a Perugia. Lui era uno straordinario storico dell'arte, e questo lo sanno tutti, ma non era solo questo, anche se questo non è poco. La sua è stata una vita fortunata perché si è occupato del bello, del linguaggio affascinante degli affreschi e dei quadri dei grandi maestri e perché possedeva una chiave di lettura che noi non sapremmo usare. I suoi occhi spalancati al centro di un volto, rivolto, ma solo in apparenza, verso il basso, vedevano cose per altri invisibili. E questa era la sua fortuna. Ma lui, questi occhi che vedevano più cose degli altri, li usava non soltanto davanti ai cieli sereni dei dipinti del Perugino, ma davanti alla vita, ai tanti problemi che riguardano la città, alla miopia nostra, inconsapevole e così distratta dalle banalità quotidiane. Aveva sempre un aspetto scapigliato, come se non avesse tempo e interesse per le cose apparenti, per il sembrare più che per l'essere, per l'utile più che per il bello. Lui questa bellezza la coltivava dentro ed era questa ricerca che l'ha portato a camminare, per le strade della vita e quelle dell'impegno culturale, qualche volta da solo, comunque tra pochi amici. Vedeva più lontano di tanti altri, è vero, ma questa forza che aveva dentro non era soltanto un regalo della natura, magari anche questo, la dote innata di un maestro, quanto piuttosto il frutto di un lavoro duro che riguarda il mestiere dello studio e della fatica spesa sui libri custoditi a migliaia un po' in tutte le stanze nella sua luminosa casa di via XX Settembre. E' stato un professore molto amato e, anche, un esigente e scomodissimo amante di questa città. L'insegnare non è stato un passare il tempo tra l'uno e l'altro interesse della vita, ma una professione vera, praticata con grande rigore, lo stesso rigore che emergeva dai suoi pubblici e meritori impegni. Certo, non era un interlocutore facile da affrontare. Il suo era un forte radicalismo della volontà accompagnato da un moderatismo altrettanto forte della ragione. Ragionava e si arrabbiava, pensava a bassa voce e poi inveiva senza misura, l'una e l'altra cosa insieme perché questo non era soltanto il suo modo d'essere ma la sua stessa cultura. Nel suo salotto, lasciate lì quasi per caso, ci sono due copie di un settimanale che non c'è più, almeno in quella forma e con quella ragione politica e culturale, il vecchio "Il Mondo" di Pannunzio. Ecco, Pietro veniva dalla scuola degli eredi del Partito d'Azione, dal radicalismo elegante di quei quattro gatti che sono stati la classe dirigente più alta che abbia conosciuto l'Italia del Novecento e per questo, naturalmente, rimasti sempre lontani dalle stanze del potere e da improbabili successi elettorali. In una copia del 1958 c'era un lungo articolo, una pagina intera, di Pietro che scriveva di Perugia, delle sue bellezze e, anche, del suo sviluppo distorto. Diceva che se la città avesse continuato a crescere in quel modo sarebbe stato un bel disastro. Questo alla fine degli anni '50, figuriamoci. Per capire com'era Pietro Scarpellini bastava guardare i suoi libri disposti lungo gli scaffali che occupavano, in pratica, quasi tutte le grandi stanze della sua casa con le finestre sulla valle umbra. La libreria non era di sicuro una parte dell'arredamento, una mostra di dorsi di copertina variamente colorati, ma un impasto di pagine arruffate e sgualcite dall'uso e dal tempo, una lunga narrazione dell'Italia e delle sue ricchezze culturali. I suoi libri erano, in fondo, il suo ritratto altrettanto sgualcito e arruffato, l'immagine più diretta della sua sapienza non accademica e niente affatto formale. Pietro Scarpellini è stato l'esponente più autorevole e raffinato come un cristallo di quel movimento che nelle stanze del potere continuano a chiamare "il partito del no". Le sue battaglie contro le varie e fantasiose forme speculative che hanno interessato la città nell'ultimo mezzo secolo sono state forti e puntigliose e, soprattutto, nutrite da una sapienza culturale senza discussioni e non certo, quindi, lamentazione populista o difesa di qualche particolare interesse. Ora che non c'è più si riconosce la sua onestà intellettuale, anche se, come dicono alcuni, non si poteva essere sempre d'accordo con lui. Si doveva, invece, essere d'accordo con lui. Avremmo avuto semplicemente una città migliore, da ogni punto di vista. Pietro se n'è andato senza andarsene davvero. Ha chiuso gli occhi in silenzio nella propria casa, accanto alla moglie e al figlio e da lì ha aspettato pazientemente di esser portato nella più bella chiesa di Perugia, San Pietro. E questa è stata la sua ultima e più semplice lezione, lontano dalle scorie del Novecento e di fronte all'alba chiara delle sue finestre. Ci ha detto di non lasciarlo solo e che tutte le sue speranze sono ancora qui, in questa città, in attesa di prendere il volo. Basterà un soffio.