C'erano una volta... tre pezzi di legno
(Alda Merini, Pahor e Pinocchio)
La milanese Alda Merini prima d’essere ricoverata in manicomio aveva già scritto poesie che, da giovanissima, l’avevano posta all’attenzione dei critici. Una volta libera, almeno in parte, dai deliri psicologici ha ripreso a scrivere e parola dopo parola, verso dopo verso si è presa la rivincita sul male con una vena poetica più articolata e di maggior spessore rispetto a prima.
La tragica esperienza del manicomio ha affollato i suoi ricordi diventando toccante poesia. Un ingorgo tra dolore mortuario e felicità vitale, due condizioni esistenziali così vissute dalla Merini da sembrare ambedue un bisogno passionale.
In questa poesia si sente il gelo che ha respirato dentro il manicomio. E’ una azzurra giornata di sole, eppure si provano brividi grigi. Ciò che rimane dopo la lettura è l’immagine dei matti come pezzi di legno che guardano fissi la terra.
Viene il mattino azzurro
nel nostro padiglione:
sulle panche di sole
e di crudissimo legno
siedono gli ammalati,
non hanno nulla da dire,
odorano anch’essi di legno,
non hanno ossa né vita,
stan lì con le mani
inchiodate nel grembo
a guardare fissi la terra.
Fa parte di Terra santa la commovente raccolta che tocca il vissuto manicomiale della Merini, ed è sorprendente notare come - in un triste e cupo (malinconico?) descrittivismo - aleggi in Terra santa un’indubbia serena e distaccata leggerezza.
Una giusta distanza che dobbiamo usare anche noi leggendo, perché la malattia mentale è una trappola infida, fa costruire leggende sia nel lettore che nell’autore. Deforma la sostanza vera della produzione. Lascia tutto in superficie, non fa arrivare nel profondo delle cose.
La Merini è sfuggita a questa trappola, non ha creato il mito della folle. Noi, leggendola, dobbiamo restituirle lo stesso rispetto: non le poesie di una matta, ma quelle di una vera poetessa.
Il legno come rappresentazione dei reclusi non è solo il frutto dell’instancabile creatività della Merini, anche il grande scrittore triestino di lingua e cultura slovena Boris Pahor, raccontando nel necessario e bellissimo Necropoli la sua esperienza nei campi di concentramento nazisti, descrive più volte gli internati simili a legni:
“… come se il cigolio delle assicelle asciutte del cassone provenisse direttamente dagli stecchi che formavano il loro torace …”.
Ciò non deve meravigliare. I legni, gli stecchi non sono altro che pezzi di un albero oramai senza vita, metafore del processo di disumanizzazione subito dalla Merini in manicomio, da Pahor nel campo di concentramento.
La sostanza delle cose è data dalla condizione e dal sentimento che si vuol raccontare, tanto è vero che Pinocchio è un pezzo di legno che ci scalda il cuore. Ma il suo è un processo inverso da quello vissuto dalla Merini e Pahor, la sua è la storia di un pezzo di legno che si umanizza, che diventerà bambino:
"C'era una volta... - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno".