Uomini che uccidono le donne
Il
solito bell'imbusto di regime ( chi sia specificamente non ha
importanza e anche le differenze di sesso – ahimè - in questo
caso “per me pari sono”), abituato a propinarci un'informazione
rimasticata, sfrondata di ciò che può turbare un'opinione pubblica
che si vuole avvezza alla pennichella (protratta anche fuori
dall'attività digestiva che la richiede, in caso di pasti
laboriosi), edulcorata per non turbare gli animi tutti volti a
seguire - in questo caldo mese di luglio - la direzione della palla
nel campo di calcio, al suono ronzante delle vuvuzzelle, che
richiamano gli acufeni prodotti dalla sclerosi dell'apparato uditivo
che, nei telespettatori e nelle telespettatrici, appaiono
particolarmente sviluppati, fino all'ipoacusia – ovvero la semi
sordità – che impedisce di chiedere conto di quanto viene
espressamente dichiarato nei vari tiggì, o – ancora espressamente
– omesso negli stessi; beh, il bell'imbusto di cui sopra
“condisce”il giornale di cui è corresponsabile con l'ennesimo
annuncio di una donna morta ammazzata dal
marito/amante/fidanzato/spasimante - in carica o scaricato, ma
comunque in crisi di abbandono - definendolo (senza arrossire,
mostrare segni della mimica del volto che facciano trasparire un
dubbio, un disagio, una qualche distanza da quanto sta per dire o ha
appena detto, senza un tremito nella voce che denunci un sussulto di
rispetto per la vittima, se stesso e l'intelligenza di chi ascolta):
“delitto passionale”.
Viviamo
in un paese di santi e poeti – si sa – di navigatori (sia pure
con bandiera offshore), ma anche di latin lovers e grandi seduttori
(da Casanova a Valentino, tanto per citare due esempi noti), tutta
gente che ha certamente a che fare con le emozioni e le passioni, che
prova e suscita in egual misura, ma mi sapete dire che passione è
quella che porta uomini ad ammazzare donne, con un crescendo da gran
guignol, in ogni luogo del Bel Paese, dentro ogni tipo di ceto
sociale, con modalità che variano per la scelta dei metodi, ma non
per l'efferatezza? Omicidi - meglio: femminicidi - che vengono
quotidianamente metabolizzati dall'opinione pubblica, subito pronta
a passare ad altro - come ci hanno abituate/i i palinsesti tivvù
- anche grazie a questo confezionarli dentro un contesto pulsionale
al quale in qualche modo siamo abituate/i – noi, sangue latino –
a dare un riconoscimento e che li rende, se non scusabili, almeno
comprensibili senza troppe faticose analisi. La gelosia, l'onore, la
virilità, l'orgoglio maschile, la sudditanza femminile, sono
caratteri appartenuti potentemente alla nostra cultura, ma che si
pensavano – io almeno pensavo – superati dentro il procedere
della modernità, che ci vuole tra le nazioni col numero più alto di
cellulari pro capite e la più alta suscettibilità ai marchi dei
prodotti hi tech. E invece in Italia passa per “normale” che le
donne siano le prime vittime della crisi economica (la disoccupazione
è femmina), che debbano continuamente “ricontrattare” il diritto
alla salute e alle scelte riguardanti sessualità e maternità, che
il peso del lavoro di cura e assistenza ad anziani, minori e
disabili, gravi quasi esclusivamente sulle loro spalle (e anzi su
queste spalle si conta per tagliare ulteriormente la spesa sociale),
che i corpi di tante giovani, nutrite a reality e fiction di pessima
qualità, vengano usati come merce di scambio dentro il negozio della
corruzione economica e politica, anche ai livelli che un tempo
avremmo definito “alti”. E' dunque altrettanto “normale” che
uomini che si vedono scivolare via chi continua ad essere considerata
come garanzia contro ogni concreta difficoltà materiale, contro il
timore della solitudine dentro una società competitiva e violenta,
come riconoscimento del proprio valore di maschio, come
legittimazione a sentirsi padrone e capo almeno nel proprio recinto,
è “normale” che perda la brocca
– come suol dirsi – e decida di sopprimere: letteralmente
annientare, chi si è fatta responsabile di tale affronto ad
un'identità che in questi anni non ha saputo cambiare, e continua a
riprodursi in termini di “padre-padrone-padreterno”, al punto da
poter continuare a decidere la vita e la morte di chi gli è o gli è
stata accanto e che non vuole più. I maschi italiani, a differenza
della stragrande maggioranza dei cittadini stranieri – e le
statistiche parlano chiaro sul triste record dell'Italia in questo
campo - non tollerano la capacità e la volontà di
autodeterminazione delle donne, che considerano spesso una macchia da
lavare con il sangue, ma mi spiegate che c'entra la passione con
tutto questo? A meno di non considerare il bisogno di potere una
passione, la stessa che spinge da secoli gli uomini a massacrarsi sui
mille scenari della storia, dove chi è individuato come più debole
ha due possibilità: estinguersi o venire sopraffatto. “Passione
del potere” che, se frustrata, si esprime in rabbia incontrollata,
e nel circolo chiuso delle relazioni private dà i frutti
insanguinati di cui parliamo. Ma la rabbia non è una passione, né
lo sono l'aggressività, la prepotenza, il sopruso e la violenza fino
all'assassinio. Che dobbiamo intendere allora con la parola
“passione”? La passione, ci dice la sua etimologia, è certamente
una dimensione dell'individuo in gran parte passiva, perché insorge
e si esprime come un sentimento e anche una sofferenza (patiri
è il verbo latino da cui deriva), mette alla prova la nostra anima,
ma come altri prodotti della psiche umana si può guidare, nutrire,
orientare, accettare o combattere. Passione si può legittimamente
declinare in passione per l'arte, per la natura, per la conoscenza,
per l'impegno sociale, in passione civile, in passione d'esistere.
Passione - qualunque sia l'esito personale che può raggiungere - è
amore. Se annettiamo il delitto dentro la sfera delle passioni,
continuando a connotarle confusamente, senza distinzioni o gerarchie,
in che modo riusciremo a distinguere vittima e carnefice e a negare
loro - anche dal punto di vista emozionale - lo stesso statuto? Ma,
più concretamente, a chi potremo chiedere aiuto o giustizia se
qualcuna/o di noi o dei nostri cari – maschi e femmine – subirà
violenza? Neanche il ricorso alla magistratura potrà garantirci
che giustizia venga fatta, se non si ripulisce il linguaggio – e
dunque il pensiero, l'immaginario, il simbolico, e i comportamenti
che ne conseguono – dagli stereotipi che permettono a tanti uomini
di odiare impunemente le donne (ogni tre giorni una donna viene
uccisa, non in Iran, o Algeria, o Pakistan, ma in Italia, “da noi”,
e nell'ambito domestico). Cito per fare un esempio concreto, e non
essere tacciata di ideologia, il caso recente di Sandro
F. condannato in primo
grado dal Tribunale di Sondrio, nel settembre 2005, e
successivamente dalla Corte d’appello di Milano, nell’ottobre
2007, a otto mesi di carcere per maltrattamenti ai danni della
moglie Roberta
B.
Motivazioni
della Corte d’appello: “La responsabilità dell’imputato era
provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e
sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da
cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e
offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale” della
moglie sottoposta a “continue ingiurie, minacce e percosse”. Ma
Sandro non si arrende e si appella alla Suprema Corte, dove infine
trova un giudice disposto a revocare la condanna, con la motivazione
che Roberta è una donna emotivamente forte, capace di sopportare
“limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di
tre anni”, da cui – sempre a parere del giudice - non sembrava
scossa e intimorita, visto che era arrivata al punto di denunciare il
marito, invece che abbassare le orecchie e continuare a subire. Fino
a che punto? Forse fino a dove la “passione” di Sandro l'avrebbe
condotta: ad essere nominata e subito dimenticata da qualche
giornalista televisivo, dentro la lista senza fine delle donne
ammazzate per il raptus* passionale di chi le aveva tanto amate.
*Raptus,
altra parola di
gomma
inflazionata, e dunque depotenziata di significato, dai mezzi di
comunicazione, che serve indistintamente da spiegazione e in
definitiva da giustificazione di comportamenti aberranti che,
“liberati” dalla sfera dell'agire consapevole e condotti in
quella della follia, sia pure momentanea, ci trasforma tutte/i in
potenziali assassini, oltre che possibili vittime (in una
inaccettabile equivalenza) e riduce la tragedia in statistica e la
colpa in debolezza.
Silvana Sonno
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