Così si riconverte Pomigliano
da Il Manifesto del 1 luglio 2010
Riterritorializzazione e
conversione ambientale dell'economia sono le uniche chances di uno
sviluppo
davvero umano.
Sia
Eugenio
Scalfari che Gianni Riotta, nei loro editoriali di domenica scorsa su
Repubblica
e ilsole24ore, hanno messo giustamente in evidenza il rapporto tra la
vicenda di
Pomigliano e la globalizzazione, come già aveva fatto Luciano Gallino
pochi
giorni prima. L'apertura dei mercati mondiali, che è l'essenza della
globalizzazione, porta inevitabilmente a un livellamento dei salari e
della
produttività del lavoro, intesa come intensità dello sfruttamento, o, se
vogliamo, dell'erogazione della prestazione. Cioè verso un miglioramento
nei
paesi emergenti o restituiti, come l'Est europeo, allo "sviluppo"; e
verso un
peggioramento nei paesi già industrializzati e "affluenti", tra cui
l'Italia.
In queste comparazioni si leggono spesso cifre che meriterebbero
una
verifica: per esempio, è vero che dallo stabilimento Fiat di Pomigliano
dipendono ben 10mila posti di lavoro nell'indotto locale? Ed è proprio
vero che
a Tychy, in Polonia, gli operai producono 10 auto per ognuna di quelle
prodotte
a Pomigliano? A parte la diversità dei modelli e della relativa
complessità,
dove sta la linea di demarcazione tra produzione di componenti e
assemblaggio? È
la stessa nei due stabilimenti o a Pomigliano ci sono più attività
"internalizzate" che a Tychy? E i salari di Pomigliano, misurati sul
costo della
vita, quanto sono ancora superiori a quelli d Tychy?
Comunque
sia, per
partecipare «alla Coppa del mondo del lavoro» Riotta ritiene che
Pomigliano deve
dimostrare che può produrre di più e a costi minori che in Polonia. Chi
non
accetta il gioco, combatte modernità e sviluppo. Questo approccio, che
relega il
Mezzogiorno nell'area del sottosviluppo (Napoli come colonia produttiva,
come lo
sono Polonia, Turchia o Serbia) rispecchia la linea di Confindustria,
che vede
nel diktat di Marchionne un modello per tutta l'industria italiana. Ma,
attenzione! L'Italia è ancora una (nonostante la Lega) e questa
accondiscendenza
alle leggi della globalizzazione rischia di travolgere non solo Napoli,
ma anche
Torino e Milano; e con esse Riotta.
Scalfari vede il problema e
cerca un
rimedio a un processo che gli pare irreversibile. Il rimedio è una
politica
redistributiva dello Stato che compensi con misure fiscali l'inevitabile
erosione del potere di acquisto dei salari e con misure di welfare il
peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Se pensiamo
alla
cricca di Bertolaso, che ha divorato in meno di dieci anni 13 miliardi
di euro,
o ai costi della politica, che ne consumano molti di più, o ai bonus dei
manager
(che però "se li guadagnano": i loro non sono forse redditi da lavoro?),
o
all'evasione fiscale e ai condoni, che hanno portato il carico fiscale
di chi
paga le tasse (cioè i lavoratori dipendenti e la gente onesta) ben oltre
il 50
per cento del reddito, una compensazione del genere pare non solo
possibile, ma
doverosa. Ma quelle risorse (Marx le chiamava plusvalore) provengono sì
dalla
compressione dei redditi da lavoro (in termini di potere di acquisto i
salari
italiani sono ormai i più bassi dell'Europa a 15); ma proprio la
necessità di
comprimerli ulteriormente è destinata a prosciugare anche il surplus a
cui
attingere per una auspicabile quanto per ora improbabile politica di
redistribuzione. In ogni caso estrarre dal o contenerne gli effetti
livellatori
non potrà mai tenere il passo con i ritmi della globalizzazione.
Ci
sono
altre alternative a questa due indicazioni? Non lo è certo il
protezionismo, più
volte proposto dalla Lega e da Tremonti (un commercialista osannato come
"genio"
da supporter e oppositori che predica il contrario di quello che fa e
nasconde
quello che fa con i giochi di parole: l'ultima trovata è chiamare
"economia
sociale di mercato" la sua marcia forzata verso liberismo e
privatizzazioni).
Comunque, chiudere o restringere i varchi alle importazioni, posto che
l'Europa
lo consenta - l'Italia non ha più l'autonomia per farlo - vuol dire
restringere
di altrettanto gli sbocchi delle nostre produzioni. Una politica che
l'industria
italiana non può permettersi.
Meno che mai c'è un'alternativa
nella
teoria proposta e riproposta da Stefano Cingolani sul Foglio, delle
flying
geese: le anatre che si alzano in volo una dietro l'altra, come i paesi
emergenti che adottano prodotti e tecnologie abbandonati dai paesi
industrializzati mano a mano che questi passano a produzioni a più alto
valore
aggiunto. Una "teoria dello sviluppo" in cui nessuno perde. Ma da tempo
le cose
non si svolgono più in modo così ordinato; ricerca e istruzione -
peraltro da
noi completamente abbandonate e sostituite dalla più stupida televisione
del
mondo - hanno ormai messo diversi paesi emergenti (Cina, India
soprattutto) alla
pari, se non più avanti dell'Italia, sia in campo scientifico che
tecnologico,
pur avendo mantenuto costi del lavoro e ambientali di gran lunga
inferiori.
Ma ci sono altri "fattori competitivi" con cui contrastare gli
effetti
perversi della globalizzazione? A mio avviso - ma non è un parere
personale; è
solo la mia personale esposizione di un pensiero condiviso da milioni di
persone
che in vari modi lo praticano o cercano le strade per praticarlo - c'è
un solo
modo per contenere gli effetti perversi del livellamento indotto dalla
globalizzazione, sia sui paesi oggi affluenti, sia su quelli emergenti,
sia su
quelli rimasti ai margini. Ma c'è un solo modo anche per contenere il
divide tra
ricchi e poveri, che passa sempre di più all'interno delle nazioni e
sempre meno
nel rapporto tra una nazione e l'altra.
La strada da imboccare è
la
progressiva e graduale "riterritorializzazione" dei mercati e delle
produzioni.
Un processo che non tocca l'informazione e i saperi (i bit), la cui
circolazione
sarà resa sempre più fluida dalla diffusione della rete, nonostante
tutti gli
ostacoli legali e proprietari imposti alla circolazione delle
conoscenze; ma che
renderà sempre più costosa la circolazione dei beni fisici e dei
materiali (gli
atomi): sia per il costo dei combustibili, destinato comunque a crescere
verticalmente, sia per gli impatti delle loro emissioni. Ma è un
processo che va
assecondato e governato, per evitare che abbia conseguenze dirompenti
sulle
nostre vite.
La riterritorializzazione di mercati e produzioni
coincide
in gran parte con la conversione ambientale nei settori vitali del
sistema
economico. Questo obiettivo è ormai chiaro e largamente condiviso nel
settore
agroalimentare, dove molti sono ormai concordi nel denunciare i danni
delle
monoculture, dell'uso dei fertilizzanti e dei pesticidi chimici,
dell'espropriazione dei coltivatori diretti (che Carlo Petrini insiste
giustamente a chiamare «contadini», perché sono portatori di una vera
cultura,
non solo tradizionale ma anche innovativa e scientificamente
aggiornata). Qui
riterritorializzazione significa multifunzionalità delle aziende
agricole,
valorizzazione delle colture e delle specialità tradizionali, delle
specie
autoctone, delle produzioni biologiche, Km0: è l'unica strada per
restituire la
sovranità alimentare a tutti i paesi e a ogni comunità. Subito dopo
viene la
valorizzazione dei materiali di risulta (con il riciclo degli scarti) e
dei
prodotti già in uso (con la promozione della loro durata attraverso la
cultura
della manutenzione e del riuso). Il terzo ambito è quello della mobilità
sostenibile, con servizi di trasporto condivisi, anche personalizzati,
al posto
della ormai insostenibile diffusione della motorizzazione privata. Poi
viene la
manutenzione del territorio e dell'edificato.
Ma il primo posto
spetta
comunque all'efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, per
sfruttare in
modo decentrato, distribuito e autonomo le risorse locali di ogni
territorio (ho
cercato di presentare nel modo più semplice possibile le problematiche
connesse
alla riconversione di questi settori nel mio Prove di un mondo diverso,
Nda
Press, 2009). Enunciate così, sono indicazioni astratte; ma ciascuna
è
suscettibile di infinite contestualizzazioni in grado di valorizzare le
risorse
tanto dei paesi affluenti che di quelli emergenti o emarginati. Ma si
tratta,
nel caso specifico del nostro paese e del contesto europeo, di
indicazioni in
grado di valorizzare anche i due principali "fattori competitivi"
residui su cui
possiamo ancora contare.
Il primo è la complessità sociale,
l'estrema
differenziazione dei ruoli, delle competenze, delle esperienze, dei
saperi, che
coincide con il processo di individualizzazione del corpo sociale
protrattosi
per tutto il corso dell'era moderna e che il conformismo e
l'omologazione
promossi dalla società di massa non sono ancora riusciti a cancellare.
Una
complessità che i paesi emergenti ancora non conoscono; o che spesso
hanno
distrutto per una troppo rapida accettazione degli stereotipi
occidentali, ma
che sicuramente non possono ricostruire in pochi anni.
Il
secondo è la
diffusione dei saperi presente all'interno del tessuto sociale, che non è
più
fatto da tempo di plebi ignoranti, ma nemmeno solo di competenze formali
acquisite in ambiti scolastici, avulsi dai contesti sociali (si tratta,
anche in
questo caso, di un fattore a rischio, incalzato da quella «dittatura
dell'ignoranza» che è l'epitome dello il Zeitgeist).
E perché
sono
"fattori competitivi"? Perché la transizione verso produzioni
ambientalmente
compatibili non solo è irrealizzabile senza una partecipazione
consapevole delle
comunità coinvolte; ma ha anche bisogno dei loro saperi. Sia di quella
conoscenza del territorio e dei contesti sociali che solo chi vive in
essi
possiede; sia delle competenze che ciascuno ha sviluppato attraverso
esperienze
di studio, di lavoro o di vita che le strutture aziendali, stregate dai
risparmi
realizzati a spese del precariato, non sanno più valorizzare. Ma la
transizione
verso la compatibilità ambientale può mettere capo a modelli
tecnico-organizzativi che possono essere esportati o comunque diffusi in
tutto
il mondo.
Si pensi al valore di una rete locale di energia
rinnovabile,
distribuita e autosufficiente; a uno schema di mobilità fondato sul
trasporto
flessibile; ai vantaggi, anche economici, di un diffuso ricorso
all'ecodesign;
ai modelli di edilizia popolare ecocompatibile; a una filiera
agroalimentare
territorialmente circoscritta, capace di mettere a frutto tutte le
conoscenze
scientifiche disponibili (che non sono l'ingegneria genetica): eccetera.
Si tratta allora di creare, o riaprire, degli spazi pubblici
dove questi
saperi possano confluire, confrontarsi, integrarsi, pur nella
irriducibile
diversità di valori e interessi di cui sono espressione; e, alla fine,
sintetizzarsi in una o più proposte di transizione a livello locale. Ha
qualcosa
a che fare tutto ciò con la vicenda di Pomigliano? No, se quella vicenda
viene
vissuta come una "emergenza": un "prendere o lasciare" imposto
all'ultimo
momento. I processi di transizione e la conversione ambientale hanno
bisogno di
tempo per maturare; ma soprattutto di soggetti e di attori che la
promuovano.
Sì, però, se si affrontano i problemi per tempo; mano a mano che
l'inevitabilità
delle crisi aziendali e delle produzioni attuali comincia a
prospettarsi. E
questo è, tra gli altri, il caso tanto di Termini Imerese quanto di
Pomigliano.
Guido Viale
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