Il libro ''Fabbriche in città'' si occupa di relazioni
La conversazione di Paolo Bartoli a "Vivi il Borgo"
Renzo Zuccherini, Fabbriche in città, Edizioni Era Nuova, Perugia, 2008 (presentazione presso la Sala Miliocchi, Perugia, 4.10.08) (appunti non rivisti) Il libro di Zuccherini non è, né mi sembra abbia la pretesa di esserlo, un testo storico; non ne ha il taglio critico né la necessaria ampiezza di documentazione; piuttosto, e per questo è forse più utile, è una guida, ma una guida molto particolare e inconsueta: è una guida di una parte o di un aspetto della città che non esiste più. Le guide tradizionali, come si sa, descrivono e illustrano con più o meno ricchezza di dettagli monumenti, palazzi, strade che il lettore può vedere e magari fotografare; invece questa di Zuccherini è una guida di ciò che non c’è e che non si può visitare: descrive le attività industriali che avevano sede nel centro storico e che ora non ci sono più; in certi casi (come gli stabili della Perugina nel viale della stazione) non ci sono più nemmeno gli edifici che le contenevano, e in questi casi davvero non c’è proprio niente da vedere. L’itinerario che Zuccherini propone nel suo libro non attraversa soltanto dei luoghi (vicoli, piazzette, palazzi, ...); c’è qualcosa di più, qualcosa di cui le guide tradizionali di solito non si occupano: sono evocate anche relazioni, forme di socialità e di conflitto, si allude ai rapporti sociali e politici che si strutturavano a partire dalle fabbriche. Il libro ricorda famiglie di imprenditori più o meno ricchi e famosi, ma anche, insieme a queste, le masse anonime delle maestranze che all’uscita dal lavoro animavano vicoli e strade oggi desolatamente deserti o tutt’al più presidiate da tossici e spacciatori. Anche se nel modo sommario che è proprio di una guida, Zuccherini rievoca le dure condizioni del lavoro di fabbrica e anche le lotte che animavano la vita politica della città: si ricorda, per esempio, che le 300 operaie dello stabilimento bacologico Pucci (via del Roscetto), in gran parte minorenni (tra 14 e 18 anni) lavoravano dieci ore al giorno e che quelle della filanda Faina lavoravano 12-13 ore al giorno; si sofferma a raccontare lo sciopero, all’inizio del ‘900, delle maestranze della Saffa, in corso Garibaldi, per difendere una giovane operaia licenziata per una piccola disattenzione sul lavoro. Rievoca anche, attraverso i luoghi che le ospitarono, le prime organizzazioni operaie e popolari: la Società di mutuo soccorso, la Camera del lavoro nel chiostro di S. Maria Nuova in via Pinturicchio (oggi in condizioni disastrose), la prima Sezione socialista in via della Luna. Il libro di Renzo è davvero una guida dei luoghi della vita popolare nella città di Perugia, un ricordo di quella forte presenza popolare (o addirittura proletaria) di cui oggi sembra ci si debba vergognare e di cui, in ogni caso, è stata scrupolosamente cancellata ogni traccia: in un certo senso si può considerare una storia sommaria (o forse soltanto degli appunti) della morte della classe operaia nella città; si potrebbe, per continuare con questa storia di morti annunciate, scrivere delle botteghe artigiane che non ci sono più o anche dei piccoli negozi di vicinato uccisi, oltre che dalla crescente concorrenza dei supermercati, dalla morte sociale del centro storico (un esempio per tutti, il negozio di Sartoretti). Per tornare al libro di cui stiamo parlando, se è una guida, è legittimo chiedersi a chi è destinata, se ai turisti oppure agli stessi perugini: l’Autore dirà a quali lettori ha inteso rivolgersi, intanto a me sembra che sia destinata soprattutto ai perugini: non presenta imponenti testimonianze di archeologia industriale che potrebbero interessare anche un visitatore di passaggio e tanto meno importanti monumenti d’arte, e nemmeno incantevoli e sconosciuti angoli nascosti della città (in questo senso è molto diversa dalle piccole e pur pregevoli guide pubblicate dal Comune di Perugia e dalla Camera di Commercio: Camminare per mura e porte etrusche; Camminare per vicoli, …). Vorrei sottolineare un altro tema affrontato nel libro che secondo me dimostra che nello scriverlo Zuccherini ha pensato prima di tutto ai cittadini di Perugia e che mostra anche che il suo lavoro è innanzitutto un lavoro sulla memoria: è il capitoletto dedicato agli ortolani di Perugia, un argomento piuttosto insolito anche per una guida insolita: in questo caso, veramente e letteralmente, non c’è niente da vedere (almeno nel senso turistico del termine), non c’è niente da fotografare, se non degli spazi verdi incolti e disordinati (per es. di fronte agli edifici universitari in via Pascoli o sotto le Prome di Porta Sole) che fino a pochi decenni fa erano degli orti intensamente coltivati che fornivano prodotti alimentari freschi agli abitanti della città. La presenza degli ortolani nel cuore della città lascerà sicuramente indifferenti i turisti di passaggio (anche i golosoni che si apprestano a invadere fra poco il centro storico), ma potrà forse suggerire qualche riflessione o almeno qualche domanda alle persone che invece ci vivono. Per esempio uno si potrebbe chiedere: come è successo che Perugia, un tempo città artigiana e operaia ma anche strettamente legata al mondo contadino, città in cui si è sviluppato un forte movimento mutualistico e sindacale, città amministrata per decenni da forze politiche che si dicono di sinistra, come è successo che tra le sue vecchie mura non sia rimasto nemmeno un segno pubblico e visibile, anche piccolo e sbiadito, di una presenza, di una cultura, di un luogo, di un gusto (o cattivo gusto) che non rispondano alla egemonia di un ceto piccolo-borghese più o meno arricchito? E’ questa una domanda alla quale non saprei dare una risposta se non prendendo a prestito le impietose riflessioni di Pasolini sulla mutazione antropologica degli italiani; è però una domanda che mi capita spesso di pormi, quando attraverso di corsa lo squallore del corso Vannucci o, più lentamente, percorro via della Viola o il corso Garibaldi. Per dirla con un’immagine, non mi sembra che ci sia un bar, una trattoria, un negozio in tutto il centro storico dove uno potrebbe entrare in tuta da lavoro o con i pantaloni macchiati di calce o di vernice senza provare imbarazzo e sentirsi fuori posto. O meglio un posto di questo genere forse c’è ancora, anche se ridotto ormai a una specie di cadavere: alludo ovviamente al mercato coperto, questa specie di riserva indiana dove pochi ortolani, due pescivendoli, un macellaio e uno sparuto gruppo di salumieri resistono all’assalto della modernità più pacchiana e volgare; il mercato non sarà più, come ha scritto Luigi Catanelli, “la dispensa del popolo”, non avrà il “carattere chiassoso e allegro” che aveva prima, ma conserva pur sempre almeno le tracce di forme di socialità e di consumi che sfuggono alla dittatura del triste “decoro” piccolo-borghese. Ha ragione Catanelli (in questo caso non Luigi ma Marcello) quando scrive che “Il Mercato Coperto è l’emblema della “desertificazione” del centro storico di Perugia”: una desertificazione che ha significato prima di tutto la cancellazione di ogni forma di presenza popolare nel centro storico. Anzi, aggiungerei, le condizioni penose in cui è stato abbandonato il mercato coperto sono un caso esemplare del disprezzo (o della vergogna o di qualche altro poco nobile sentimento) che i comandanti nostrani della politica e delle economia nutrono verso ciò che sembra popolare o poco moderno. In effetti non è facile capire l’accanimento della amministrazione locale nel voler trasformare il mercato coperto in un “prestigioso” e luccicante centro commerciale; se è difficile, per così dire, capirne le motivazioni, è invece facile immaginarne gli effetti: sarà la tappa finale della trasformazione di Perugia da città operaia e operosa, come quella descritta da Zuccherini, in una misera Disneyland di provincia. L’odore forte delle cipolle e delle aringhe non turberà più l’olfatto dei turisti della domenica e gli ultimi indigeni rimasti potranno scegliere se fare la spesa (anzi shopping) nella boutique di Versace o in quella di Gucci. Intanto, già da tempo, gli indigeni si saranno preparati imparando a rinunciare al bicchiere di vino e al pane e mortadella per convertirsi al culto dell’happy hour. Mi dispiacerebbe se qualcuno avesse colto nelle mie parole l’eco di nostalgie populiste o passatiste che sono estranee al mio modo di guardare alla società e, sono certo, sono estranee a quello di Zuccherini; nello stesso tempo non sono uno di quei fanatici della modernità a tutti i costi, anche di quella più stracciona e arrogante, che identificano lo sguardo critico e disincatato sul presente con il rimpianto reazionario del passato e con un atteggiamento di ostilità verso il cosiddetto progresso. Anzi, vorrei dire, per concludere, che al di là dei contenuti e delle informazioni che Renzo presenta nel suo libro, c’è un aspetto che colpisce in modo particolare: ed è proprio la sua capacità di lavorare con passione sulla memoria (di questa capacità Renzo ha dato sempre prova anche nelle tante iniziative culturali di cui è stato protagonista) senza cadere in nessuna forma di laudatio temporis acti, di sterile e regressiva nostalgia del passato. Il tono della sua scrittura è asciutto, privo di retorica (che pure sarebbe stata facile) e per questo tanto più efficace anche – Renzo mi scuserà se così rischio di forzare le sue intenzioni - come critica implicita del tempo presente.
Paolo Bartoli
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