Perchè la crisi produce disoccupazione
da Repubblica del 10 febbario 2010
Come mai una crisi dai contenuti prevalentemente finanziari ha prodotto
un alto tasso di disoccupazione nell´industria? Le risposte formulate
finora vertono soprattutto sugli effetti negativi della restrizione del
credito. Le banche colpite o minacciate dalla crisi, si dice, riducono
il credito alle imprese; senza credito non si possono acquistare
materiali da lavorare né compiere investimenti; perciò le imprese
italiane e straniere riducono sia la produzione che le importazioni e
tagliano i posti di lavoro.
Spiegazioni simili del rapporto
finanza-industria ai tempi della crisi sono forse corrette, ma
superficiali. Guardano soltanto all´ultimo anello del rapporto. Se si
risale qualche anello più su, il rapporto si può così riassumere: la
crisi finanziaria produce disoccupazione industriale su larga scala
perché l´industria è diventata essa stessa un settore della finanza. In
circa trent´anni l´impresa industriale è stata totalmente
finanziarizzata. I disastri dei primi anni 2000, capostipite la Enron,
sono stati il primo atto del dramma cui l´avvenuta ibridazione
finanza-industria sta portando l´economia mondiale. Nel secondo atto
abbiamo assistito ai disastri del 2007-2009, archetipo la Lehmann
Brothers, ed alle devastazioni in atto del mondo del lavoro. Per non
arrivare a un terzo atto, che potrebbe essere ancora più pauroso,
bisognerebbe cercare di capire meglio il rapporto tra le due.
La
finanziarizzazione dell´impresa industriale è iniziata da quando gli
investitori istituzionali – fondi comuni, fondi pensione e
assicurazioni – i quali posseggono mediamente oltre il 50 per cento del
capitale di tutte le società quotate, hanno imposto ai dirigenti una
nuova concezione dell´impresa. Essa non doveva più venire concepita
come un´organizzazione nella quale ogni parte è legata alle altre e il
cui funzionamento tocca gli interessi di molti gruppi, dai dipendenti
ai fornitori e alla comunità locale, oltre a quelli degli azionisti.
Doveva invece essere concepita come un fascio di attività (nel duplice
senso di cose che si fanno e di attivi finanziari) solo temporaneamente
connesse da un contratto; un conglomerato di impianti, mezzi di
produzione ed uffici di cui ogni pezzo deve essere monitorato di
continuo al fine di stabilire se il suo rendimento finanziario sia pari
o superiore a quello dei pezzi migliori della concorrenza. Se tale
rendimento è in sé elevato, ma appare inferiore anche soltanto di poco
a quello della concorrenza, quel pezzo dell´impresa va subito
ristrutturato, oppure venduto, o definitivamente chiuso. Ciascuno di
questi interventi comporta ovviamente il licenziamento di gran parte
dei relativi addetti, e talora di tutti; come potrebbe accadere allo
stabilimento Fiat di Termini. Ma non di questo debbono preoccuparsi i
manager, dicono i teorici dell´impresa come mera entità finanziaria.
Deve pensarci lo Stato.
Un secondo passo verso la
finanziarizzazione dell´industria è consistito in una esternalizzazione
della produzione su scala mondiale. Si è passati dall´integrazione
verticale del processo produttivo entro una singola impresa, al
coordinamento orizzontale da parte di un gruppo di controllo di
centinaia di produttori sparsi per il mondo. Nel primo caso, un´impresa
mirava a produrre al proprio interno tutte le parti che andavano a
comporre il prodotto finito. Nel secondo caso un´impresa fa tutto il
possibile per non produrre nulla all´interno. Negli anni ´50 e ´60, la
Olivetti produceva negli stabilimenti di Ivrea fino all´ultimo tasto
delle centinaia di migliaia di macchine per ufficio che sfornava. Ed
alla Mirafiori di Torino quattro quinti dei componenti di un´auto erano
prodotti entro lo stabilimento. Oggi oltre il 75 per cento di un´auto
Fiat viene prodotto da centinaia di fornitori esterni; la Renault
supera l´80 per cento. Il più grande costruttore di Pc del mondo, la
Dell, non produce nemmeno una porta Usb dei milioni di macchine che
vende. Coordina invece l´attività di migliaia di produttori piccoli
medi e grandi in quattro continenti.
La esternalizzazione
globale ha generato vari effetti negativi sull´occupazione. Milioni di
posti di lavoro sono migrati dalle grandi imprese a imprese piccole e
medie. La General Motors, ad esempio, che ancora nel 2005 aveva oltre
330.000 dipendenti, a fine 2009 ne aveva meno di 90.000, pur producendo
un numero di vetture certo non inferiore di quattro volte. Gli altri si
sono trovati a lavorare nella Delphi, costola esternalizzata della Gm,
o nelle migliaia di sub-fornitori che vi fanno capo. Vantaggio per
l´impresa madre: sindacati deboli, salari, contributi pensionistici e
assicurazioni mediche fortemente ridotti. Un altro effetto negativo sui
livelli di occupazione e le condizioni di lavoro è derivato dalla
facilità con cui l´impresa madre si può sbarazzare del fornitore o
sub-fornitore che per qualsiasi motivo le torni sgradito. Una grande
impresa che scopre di avere un reparto funzionante in modo poco
soddisfacente difficilmente può chiuderlo dall´oggi al domani. Ma se si
tratta di una società che sta in un altro Paese può eliminarlo dal giro
con una semplice mail. Nell´insieme, l´esternalizzazione ha comportato
mettere in conflitto fornitori contro fornitori, lavoratori contro
lavoratori, regioni contro regioni, sia entro lo stesso Paese che tra
un Paese e l´altro. Ricetta efficace per migliorare il bilancio
finanziario, quanto micidiale per l´occupazione.
Un altro
aspetto della finanziarizzazione delle imprese industriali è stata la
formazione di monopoli mediante estese campagne di fusioni e
acquisizioni. Sono campagne in cui hanno un ruolo determinante le
banche di investimento, che da esse traggono utili astronomici. Le
ricadute sull´occupazione sono l´ultimo dei problemi per tutti gli
attori coinvolti. Perché la Alcoa, poniamo, vuole chiudere un grosso
stabilimento in Italia? È possibile che abbia diversi motivi tecnici e
logistici. Ma resta il fatto che tra il 2007 e il 2009 l´Alcoa è stata
coinvolta in una furiosa lotta con due colossi minerari
angloaustraliani, Bhp Billiton e Rio Tinto; uno brasiliano, la
Companhia Vale do Rio Dace (Cvrd), e uno canadese, Alcan, allo scopo di
conquistare uno di essi o almeno evitare di venire comprata. Per
affrontare tale competizione l´Alcoa ha dovuto impegnare decine di
miliardi di dollari, non importa se suoi o presi a prestito. Il
problema, in tali vicende, è che decine o centinaia di miliardi vengono
mobilitati non per fare investimenti, aprire nuovi impianti e creare
occupazione, bensì per eliminare un concorrente e subito dopo ridurre
il totale dei posti di lavoro. Pare faccia salire il valore del titolo
in Borsa.
In Usa il presidente Obama parla nuovamente, dopo un
anno di silenzio, di riforme serie dell´architettura finanziaria. Nella
Ue ci si balocca ancora con l´idea di aumentare l´attività di
sorveglianza sulle banche, quasi che sorvegliare quel che avviene
all´esterno di un edificio pieno di crepe, qual è il sistema
finanziario mondiale, conferisca a chi lo frequenta maggior sicurezza
che non ristrutturarlo. Tuttavia, se qualche riforma dovesse mai vedere
la luce, non recherà alcun vantaggio all´occupazione nel caso in cui
essa non preveda anche una riforma del sistema industriale, dato che
questo è diventato un´appendice del primo.
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Luciano Gallino
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