Ero pe ‘l borgo...
L'intervento alla presentazione del volume (15 febbraio 2010)
Serena Innamorati Presentazione del volume Ero pe ‘l borgo 'n mezzo ai Perugine, a cura di Renzo Zuccherini, Ed. Futura, Perugia
(Teatro Morlacchi, Perugia, 15 febbraio 2010)
Stasera presentiamo il libro curato da Renzo Zuccherini, che si intitola Ero pe ‘l borgo ‘n mezzo ai Perugine. Il XX giugno nella poesia dialettale perugina, con una presentazione di Lello Rossi. Questo volume non è, io credo, il frutto isolato di una commemorazione, che già sarebbe abbastanza, ma è invece il prodotto di un percorso di studio e di partecipazione, e da questo percorso, seguito dal curatore, io vorrei iniziare, ben sapendo di non essere una critica della letteratura, quanto piuttosto, nella mia condizione di bibliotecaria, essere una persona che nell’approfondire ricerche tra libri e documenti “vede”, per così dire, emergere la trama e i legami della rete dei fatti, delle sensibilità, delle culture e soprattutto delle relazioni, nelle diverse epoche e soprattutto è attratta dalle epoche dei cambiamenti e delle crisi. Emerge dunque, da questa ultima fatica di Renzo, un percorso che lo caratterizza in modo specifico, quello cioè di affrontare argomenti, ambiti, che potremmo definire “difficili”, perché campi sui quali sembra essersi fatta strada l’idea che non c’è nulla da aggiungere pena la retorica: il caso di questa sera è lampante, e tutte le volte invece, leggendo i suoi scritti, ci si accorge di punti di vista inconsueti, dell’apertura di nuove strade di ragionamento, di collegamenti, di relazioni, che illuminano questioni ancora confuse. Dunque nessuna retorica, ma un metodo e un costume scientifico. Così è stato per la riapertura della questione dell’uso del dialetto scritto, della prosa e della poesia, intorno agli anni Settanta del Novecento, così è stato per la partecipazione, con scritti ed interventi, al dibattito sulla scuola italiana negli anni Ottanta. Approfondimenti di temi quali l’interculturalità nelle scuole, l’educazione linguistica e letteraria, il dialetto parlato, scritto, poetato, sono parte del medesimo, lungo percorso culturale e professionale di Renzo Zuccherini e degli altri, i quali oggi, almeno alcuni, figurano in questa raccolta di poesie sul XX Giugno. Ecco dunque la prima particolarità di questo lavoro: la raccolta non riguarda solo l’evento risorgimentale, quanto piuttosto Zuccherini, prendendo la data come metafora del luogo, il Borgo Bello di Perugia, ci accompagna con una maestria indiscussa dal 1859 al 1944: sta proprio lì il primo fatto poetico, che diviene per di più un fatto teatrale, perché egli ci guida e ci fa immaginare di visitare un grande museo all’aperto della città, che passa attraverso gli anni per gli stessi luoghi con persone diverse, le quali vivono in comune avvenimenti passati, e passa tra avvenimenti vissuti qui ed ora, in quel giorno, da varie persone insieme in varie epoche e in punti diversi di quello stesso luogo. La presenza e il ricordo sono dunque tra noi contemporaneamente. L’ultima, strabiliante poesia, presente nel volume, quelle sei righe di Claudio Spinelli: mi sembra di sentire le parole di Walter Pilini sulla peruginitudine, come “la coscienza che i Perugini vecchi e nuovi hanno della propria cultura antropologicamente intesa”. Lungo la metafora della presenza e del ricordo incontriamo: il giorno, appunto, della sconfitta e del saccheggio, quel 20 giugno del 1859; vediamo poi il luogo: il monumento eretto nel 1909, quando tutti ritornano lì con le corone; ma ancora il giorno, che è quello del 1944, e assistiamo all’ingresso degli Alleati a Perugia da lì, dal XX Giugno; che poi è il ricordo di un luogo, il Poligono di tiro, dove vennero fucilati nel marzo Mario Grecchi e gli altri giovani: un’altra ingiustizia, proprio lì al XX Giugno; ed infine, il ricordo di quella memorabile partenza nel 1961 della marcia della pace Perugia-Assisi: sempre e ancora lì, al XX Giugno, quando, con Capitini in testa, quattro gatti (rispetto alle folle che vennero successivamente), sognatori, ma decisi, si incamminarono verso la città di Francesco con cartelli e bandiere per testimoniare il loro dissenso contro le guerre. Non stupisce dunque che il libro si apra con uno scritto di Capitini: “Nell’animo mi scendeva una mestizia...”, il ricordo della commemorazione dei morti del 1859 di quando egli era ragazzo, nei primi decenni del XX secolo; sono poche righe, in italiano, che scandiscono l’ammirazione per il coraggio, l’avversione alla crudeltà, la diffidenza verso l’oppressore, la tenerezza per il silenzio a cui erano scesi quei morti: sono le parole di Capitini. Furono gli stati dell’animo che fecero germogliare in Capitini il sentimento civile: questi guidano idealmente, a mio avviso, tutta la raccolta delle quindici firme, una donna e quattordici uomini che compongono il libro. Una bella edizione dell’editrice Futura, con le foto di Sandro Bellu e dello stesso Zuccherini, i manifesti di Brenno Tilli, i quadri degli eventi e dei protagonisti, con due bellissime fotografie del Grifo senza e con la tiara sotto il rostro: viene portata a compimento una fatica culturale, che la presentazione di Lello Rossi, uno dei suoi ultimi scritti, rende ancora più ricca, ricordandoci quanto il Comune di Perugia sia stato erede e promotore del forte sentimento identitario popolare, del suo ricordo nella contemporaneità fino ai giorni nostri. In effetti, un’altra pubblicazione, piccola per la verità, fu data alle stampe dal Comune, sempre per la cura di Renzo Zuccherini, nel 1980, dal titolo Sémo artorneti st’anno al monumento, che egli stesso ha donato alla nostra Biblioteca Augusta e della quale è l’unica copia. Scriveva nella presentazione di allora un giovane Zuccherini, di appena trentaquattr’anni: “In questi testi e in questi autori emerge la narrazione dignitosa della propria storia attuale e passata, come storia di popolo, di gente dei borghi, di folla cittadina: la narrazione cioè di una tradizione culturale popolare”. Erano quelli gli anni nei quali un gruppo di giovani intellettuali aveva ripreso la spinosa questione della scrittura e della poesia in dialetto; una generazione, un gruppo coraggioso, perché la faccenda era, per così dire, abbandonata dagli anni Sessanta e, almeno ai più, sconosciuta. L’ultimo Bartoccio di allora, Mariano Guardabassi, era morto nel 1952, ed una diffidenza regnava tra studiosi e persone di cultura riguardo all’uso poetico del dialetto perugino. Infatti si era andata affermando un’interpretazione popolaresca, scoppiettante, di bozzetto, di cronaca salata, ma non capace di “parlare di temi eterni”: un’interpretazione certo verosimile, ma non unica; e nei tempi ancora precedenti, si era usato il dialetto ridicolizzando la tradizione del linguaggio della campagna, per un’azione cinica quanto spregiudicata. Tutto questo faceva scrivere allora, nella metà degli anni Ottanta, a Lello Rossi, al quale va tutto il merito di avere dato fiducia alla ricerca di Zuccherini e degli altri, nell’introduzione dell’almanacco Col donca! Auguri perugini per il 1984: “Come si spiega questo interesse per il dialetto, che pur avendo conosciuto importanti espressioni, non ha alle spalle una lunga ed eccezionale tradizione di letteratura dialettale?” Un interrogativo, questo, che fa quasi eco alle parole di Giuliano Innamorati, che da Firenze scriveva al giovane Zuccherini, nella sua “Introduzione in forma di lettera”, posta in apertura di quell’importante lavoro di ricerca del 1984, e mi riferisco a Gli anni del Bartoccio. La letteratura dialettale perugina, ove il critico, augurando il successo a un così bel libro, sollecitava il giovane autore ad approfondire gli studi da un lato verso “la migliore vicenda antica”, e dall’altro offriva spunti per affrontare la tradizione pre-ottocentesca. Egli, che come Walter Binni non tornò mai più, quasi un esilio non voluto, in via stabile a Perugia, se non da morto, esprime il suo “fastidio per i cultori più o meno sapienti del peruginesco non direttamente popolare”, e si spinge, con parole come spilli, a tratteggiare una condizione culturale perugina: “La letteratura, la poesia non sono di casa, da noi”, perché una cultura signorile, separata, medica e giuridica, di tono alto, presuntuosa e feroce, anche se nobilissima, povera di fatto “ in punto di creatività (specialmente nella zona letteraria)”, dopo la sconfitta della guerra del sale (siamo nel 1540) “si adulterò anche linguisticamente”. La ricerca che Zuccherini, ed altri come lui, hanno portato avanti, affronta proprio questi interrogativi, e scava non dimenticando la periodizzazione suggerita, ma aggiungendo punti di vista inediti, quali quelli apertisi con il mutamento profondo della società, conseguente anche alle nuove condizioni più aperte e democratiche dell’istruzione in Italia. Da quella angolazione del mutamento, aiutati dal nuovo clima di riscoperta della città, e mi riferisco al Teatro in Piazza al Segalavecchia, si sono misurati col passato, hanno studiato, hanno letto e hanno ascoltato letteratura, poesie e persone, e hanno incontrato, lungo questi stessi percorsi, Luigi Catanelli, Giacomo Santucci, Brenno Tilli, Giovanni Moretti, Claudio Spinelli e tanti altri, tessendo una rete in cui il linguaggio torna ad essere anello di collegamento tra la società e gli uomini, risultato dello sviluppo storico di una comunità umana e della sua socialità. Lungo il crinale degli studi storico-linguistici e quello degli studi storico-antropologici della produzione letteraria, si snoda dunque la ricerca di Zuccherini e degli altri, alcuni dei quali qui presenti stasera, altri riportati con i loro versi nel volume. L’interesse per il dialetto, per dirla ancora con Lello Rossi, “rivela un profondo bisogno di storia, una ricerca di identità della nostra città e dei suoi valori, non per ripiegarsi in se stessi, ma per continuare a costruire un futuro”. Fra gli interrogativi dei più attenti al fenomeno, formulati nel 1980, e queste parole di poco posteriori, sta il programma di lavoro scientifico di Renzo Zuccherini: una scommessa che porta fino a questi giorni nostri, fino a questo volume. Ma due parole permettetemi ancora di dire intorno alla particolarità della lingua usata in queste poesie: un dialetto che col suo ritmo scandisce la gravità degli eventi, accompagna le novità e i cambiamenti con un dialogo stretto e serrato, una lingua plastica a volte e a volte ispida, che a momenti raggiunge espressioni epiche ed eroiche, a volte diviene invece un lamento funebre, lirico e corale, diviene cioè un threnos. Il fatto del 20 giugno 1859 è emblematico: volontà stragista per mezzo degli Svizzeri, è stato scritto in un bell’intervento riportato sulla rivista Diomede; in una guerra di eserciti, Perugia, che ha pochi militari, vede scendere a difendersi i propri cittadini; la difesa della città, per respingere un esercito che assedia, immediatamente è quell’evento medievale: è di nuovo l’assedio del goto Totila che nel 547 d.C. vince, occupa e saccheggia la città. Il popolo tutto è il vescovo guerriero Ercolano. Esso difende non solo il proprio diritto di vivere, come nel 547, ma anche, nel 1859, esso difende il diritto a scegliere un’altra strada, ad entrare in un nuovo avvenire. Per questo la battaglia e la sconfitta diventano un’epopea, perché sottolineano l’ingiustizia subita e il “civilissimo significato” che appariva presente a Walter Binni nei giorni del ricordo, è accompagnato nelle espressioni liriche da una forma epica che arriva infine alla compassione e alla tenerezza per la città, per i suoi vivi e per i suoi morti. Allora viene in mente la grande epopea della città sconfitta cantata da Omero: è dunque tra questi due assi, l’assedio e il saccheggio dell’esercito dei barbari del goto Totila, o dello svizzero Schmidt, e la violenza e i saccheggi, contro il popolo, cantati da Omero, che mi pare di vedere oggi spuntare, a centocinquant’anni da quel fatto, quanto il non dimenticare il saccheggio, come un’ingiustizia subita, il non dimenticare l’eccidio dei giovani antifascisti del ‘44, come un’altra ingiustizia subita, proprio lì al XX Giugno, siano un monito nel libro che ci dice: “ricordare sempre quelle ingiustizie sarà la nostra vittoria”. Il luogo fisico e il luogo del ricordo diventano il luogo della lirica e della poesia, la poesia civile ed epica delle persone. Molto si è scritto su questo tema, ma qui vorrei aggiungere che non a caso alla fine del XIX secolo venne a Perugia, invitato dalla Società dei Rioni, Cesare Pascarella: egli, il “moderno” poeta del dialetto romanesco, lesse lì i suoi sonetti di Villa Glori, 25 sonetti scritti per ricordare lo scontro armato del 1867 a Roma, avvenuto nel quadro delle iniziative intraprese da Garibaldi per liberare quella città. Nello scontro, perse la vita Enrico Cairoli. Di lui, e di quella poesia civile, Carducci scriveva nel 1886: “Sonetti in dialetto romanesco, originali, che dopo il Belli, pare impossibile, ha trovato il modo di farne Cesare Pascarella. In questi di Villa Glori, il Pascarella solleva di botto (con pugno fermo) il dialetto ad altezze epiche”. Ecco dunque, e questo libro lo dimostra, che Roma non è la sola nel XIX a scrivere di poesia civile; che Perugia, una volta di più è con i suoi cittadini e le sue vicende nel cuore della questione italiana. E mi piace ancora chiudere con le parole di Lello Rossi: “Perugia è lì, e il suo dialetto scandisce la storia dal profondo dei secoli”. Adesso, io credo, che ci piacerà ancora ascoltare poesie da Ero pe ‘l borgo ‘n mezzo ai Perugine. Grazie.