Quanto a lungo tra il grano e tra il vento di quelle soffitte più alte, più estese che il cielo, quanto a lungo vi ho lasciate mie scritture, miei rischi appassiti. Con l'angelo e con la chimera con l'antico strumento col diario e col dramma che giocano le notti a vicenda col sole vi ho lasciate lassù perché salvaste dalle ustioni della luce il mio tetto incerto i comignoli disorientati le terrazze ove cammina impazzita la grandine: voi, ombra unica nell'inverno, ombra tra i dèmoni del ghiaccio. Tarme e farfalle dannose topi e talpe scendendo al letargo vi appresero e vi affinarono, su voi sagittario e capricorno inclinarono le fredde lance e l'acquario temperò nei suoi silenzi nelle sue trasparenze un anno stillante di sangue, una mia perdita inesplicabile.
Già per voi con tinte sublimi di fresche antenne e tetti s'alzano intorno i giorni nuovi, già alcuno s'alza e scuote le muffe e le nevi dai mari; e se a voi salgo per cornici e corde verso il prisma che vi discerne verso l'aurora che v'ospita, il mio cuore trafitto dal futuro non cura i lampi e le catene che ancora premono ai confini.