Home >>
Un nuovo attentato agli ecosistemi fluviali
Un nuovo attentato agli ecosistemi fluviali
Le inondazioni non si evitano con le arginature rigide, si evitano con una rigorosa e attenta politica urbanistica
Non si può non ammettere che anche in Umbria da anni permettiamo impunemente che Tevere e affluenti siano ormai considerati oggetti di consumo, da rapinare, costringere, escludere.
Già negli anni ’80 Legambiente denunciò le tante opere di canalizzazione dei corsi d’acqua eseguite dai Consorzi di Bonifica e dai Provveditorati alle Opere Pubbliche. Soprattutto dal cosiddetto Ente Valdichiana, lo stesso che realizzò gli invasi di Montedoglio alle sorgenti del Tevere e sul Chiascio a Valfabbrica.
Negli anni ’90 è stata la volta dei tanti interventi di bonifica e regimazione idraulica affidate a ditte interessate soprattutto a nascondere vere e proprie attività di cava in alveo, con il beneplacito degli uffici tecnici provinciali e foraggiare quella che è ormai la prima industria regionale molto energivora e offerta alla speculazione: l’edilizia.
Oggi siamo arrivati alle macro-arginature per mettere in sicurezza le tante zone golenali, che dovevano essere protette dall’autorità di bacino e invece sono state tranquillamente urbanizzate dai comuni compiacenti. Ovviamente, poi, le cosiddette messe in sicurezza vengono estese anche ad altre aree sempre rivierasche,, che diventano fabbricabili. E il fenomeno interessa sempre più anche il comprensorio del perugino con interventi già effettuati, come a Deruta, o come a Pontenuovo di Torgiano e previsti nell’area dei Ponti nel Comune di Perugia; la scusa è che con i cambiamenti climatici e la concentrazione delle piogge nel breve periodo aumentano i rischi di esondazione. Mentre l’intento è assolutamente speculativo: favorire cementificazioni e costruzioni in zone esondabili protette.
Le conseguenze risultano disastrose, perché le arginature permettono fra l’altro la velocizzazione delle acque, creando notevoli problemi di tenuta a monte e soprattutto a valle aumentando notevolmente il rischio di dissesto idrogeologico, che è già molto elevato rispetto a tutte le altre regioni. Allora tanto varrebbe canalizzare il corso d’acqua dalla sorgente alla foce! Infatti la prima vera ed efficace forma di prevenzione non è quella di mettere in sicurezza gli insediamenti esistenti nelle zone a rischio di frane ed esondazioni con costose opere pubbliche fortemente impattanti, quanto quella di evitare fin dall’origine tali insediamenti con una rigorosa e attenta politica urbanistica e quindi con misure, semplicemente, ostative, che non comportano alcun costo.
È vero che ormai quello che è fatto è fatto e per il passato questo tipo di prevenzione non è più possibile, per cui ci sono situazioni per le quali, comunque, alcuni interventi di ingegneria idraulica risultano necessari, se non altro per riparare i danni; ma continuare è assolutamente colpevole.
Adesso, per evitare i danni delle alluvioni la strategia da seguire non è quella di migliorare la funzionalità dei corsi d’acqua con opere che agevolano il deflusso delle piene, incrementando velocità e portata, perché così si trasferiscono solo a valle i problemi esaltandone le conseguenze. Al contrario, è necessario trattenere le acque e imbrigliare l’onda di piena, rallentandone il deflusso fin dalla parte più a monte del bacino idrico, e questo si può realizzare benissimo soltanto ripristinando il rispetto della vegetazione e degli altri caratteri naturali del contesto esistente.
Rispetto alle piene ordinarie è necessaria un’assidua opera di manutenzione che preveda la pulizia periodica degli alvei asportando solo il materiale sovralluvionale per ripristinare il sistema delle canalizzazioni del deflusso delle acque meteoriche. Per non parlare, poi, della funzionalità dell’apparato fognale ecc…
Per fronteggiare, invece, gli eventi straordinari con tempi di ritorno di 50-100-200 anni, bisogna puntare all’individuazione di più vaste aree golenali e bacini di esondazione controllata, capaci di assorbire l’onda di piena e trattenere le acque laddove ciò non minacci la pubblica incolumità, né rilevanti danni patrimoniali e cioè nelle poche aree non antropizzate ancora superstiti del territorio agricolo.
Molto utili sono anche le opere di riforestazione e, con le cautele del caso, la realizzazione di piccoli invasi artificiali, che presentano il doppio vantaggio di assorbire le piene e attenuare le magre, impedendo che l’acqua dolce si esaurisca troppo presto nel mare, aumentando così i periodi siccitosi, l’impoverimento delle falde e la tendenza alla desertificazione.
Insomma, a prescindere dagli errori del passato, per rendere compatibili tutela dell’ambiente e salvaguardia della pubblica incolumità, esistono soluzioni molto alternative a quelle finora attuate o previste nella nostra regione e che alcuni comuni si ostinano a sollecitare attraverso le Province per garantire solo in teoria la messa in sicurezza dell’abitato indebitamente costruito, ma in pratica per consentire ulteriori ampliamenti delle aree edificabili e cedendo alla speculazione edilizia.
Perché il fiume è un bene comune che non può essere privatizzato, ma rappresenta il nostro passato e garantisce il nostro futuro.