14/08/2024
direttore Renzo Zuccherini

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Foglie di settembre
Il nuovo numero di Folia fluctuantia

Il nuovo numero di Floia fluctuantia (settembre 2009) è annunciato con questa poesia:

La luna nuova di settembre
ha cacciato i ragazzi sulla via.
Soffiano nelle mani, un po' vili
un po' pazzi, rifanno il verso
alla puzzola che si duole.
Ruzzolan nei cortili
tra i rovi e i calcinacci
a far razzia.
Hanno le ali ai piedi,
stringono le uova calde nelle tasche.
Li asseconda la luna che addormenta
i guardiani sulle frasche.

 
                            Leonardo Sinisgalli

FOLIA   FLUCTUANTIA

fogli … come … foglie

frammenti , momenti,  pensieri , racconti

 

anno IV, n° 9, 2009, luna di settembre

 

 

Chi ha visto una verità non può esserle infedele

(Franco Fortini, 1991)

 

 

 

Luna piena: il giorno quattro           Luna nuova: il giorno diciotto

 

 

 

 

Folia Fluctuantia

Officinalia et Parasitologica

 

“res naturalia et humana”

 

Vocabolo La Madonna o Barileto

Str. Com. per Pilonico Paterno 4

06134 Pianello, Perugia

daniele.nene@email.it

075 602372

 

Daniele Crotti, MD

LD & LP

in

Parassitologia e

Microbiologia Medica

 

 

 

 

ACQUA ARIA FUOCO TERRA

 

In questo numero:

 

ACQUA

 

un bene preziosissimo che deve

appartenere a tutti

 

(a pagina 4)

 

 

 

Da “Riaccendiamo le luci del cielo

 

(in STORIE NATURALI di Mario Rigoni Stern)

 

   Se proprio non vogliamo accogliere quell’appassionato appello di Guido Ceronetti che invitava a fare a pezzi la televisione, …, e scriveva che dà le vertigini pensare «la forza di espansione del male rinchiusa in questo mezzo truce», almeno in una delle prossime notti … usciamo a guardare il cielo. Ma mentre si spegne il televisore bisognerebbe anche  far spegnere le luci della città e delle case e i fari delle automobili che non ci fanno scorgere le stelle. Nelle  notti serene ogni tanto bisognerebbe fare questo. Sarebbero felici gli astronomi e, forse, meno violenti gli uomini.

……………………………………………………..

   Lassù, per millenni, i nostri predecessori hanno letto storie meravigliose e nell’armonia dei movimenti degli astri calcolato l’evolversi delle stagioni, come sul quadrante di un cronometro che mai non falla. Ora sono pochi gli uomini che sanno guardare e incantarsi di fronte alla volta stellata, eppure quale grande stupore ho constatato in cittadini che una notte d’inverno hanno alzato gli occhi uscendo da casa mia.

   Nel passato il contatto della gente con il firmamento era continuo e accompagnava la vita. Venere, «lo bel pianeto che d’amar conforta», al mattino indicava l’ora di lascire il letto per riprendere il lavoro, alla sera quella di smettere e rincasare. ……………………………………………

1

 

LETTURE    &  LETTURE

 

 

‘I MILLE. QUEI RAGAZZI CHE ANDARONO CON GARIBALDI’ di Giuseppe Bandi per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri (2009) e ‘Canti di maeremme e di miniere, d’amore, vino e anarchia’, di Lucio Niccolai, Edizioni Effigi (2009, II Ed.): quali analogie?

Li ho letti in contemporanea Il primo: la storia dell’impresona raccontata da un garibaldino che vi partecipò; il II: la storia del Coro dei Minatori di Santa Fiora, trascritta da uno di loro. Belli ed interessanti. Utili, emozionanti.

Beh, quale legame li unisce?

Eccoci:

a pagina 52 del secondo si legge:

‘Un altro dei cavalli di battaglia del Coro dei Minatori di Santa Fiora è Oh bella, bella. Una strofa di questa canzone è citata nel libro di Luciano Bianciardi, La battaglia soda, un “romanzo storico” ambientato in epopea garibaldina. L’autore, ad un certo punto, fa così esprimere il protagonista (un ufficiale garibaldino che rievoca la figura di Giuseppe Bandi), chiamato ad interpretare una canzone popolare della sua terra:

 

ho paura che sarà la stessa cosa per le canzoni. Ho paura che presto gli italiani canteranno uniti la stessa zuppa, e Dio voglia che non sia una zuppa scipita e senza sugo. […]

«Il signor maggiore è toscano», intervenne allora il signor Montella come spiegandolo a chi della compagnia non se n’era ancor accorto «e ci farebbe un gran regalo intonando qualcuno degli stornelli del paese suo».

L’idea di mettermi a cantare era la più lontana delle mie intenzioni. E’ vero che la musica mi piacque sempre e che posso ancor dire d’avere una voce discreta, ma per mia disgrazia […] non andai mai a scuola di solfa, e l’arte dei capperi non la studiai. E poi mettermi a cantare proprio lì, in quella distinta compagnia di signori gravi e barbuti, di belle dame che non avevo in dimestichezza, e per giunta digiuno, e senza il sostegno d’un bicchier di vino, come quello che dispone l’animo a certe stravaganze, non me la sentivo. E invece l’idea piacque a molti, che attaccarono a battere le mani e ad esclamare che il signor maggiore doveva farsi canterino. Io mi schermivo come meglio potei […].

«E sia – risposi – l’avete voluto e tanto peggio per voi. Canterò.» […] E intonai uno stornello nello livornese che mi era sempre tanto piaciuto, e difatti l’ho ancora in mente. Diceva:

                                                                                                                               

 

E quando ci venivi, a casa mia,

la meglio seggiolina era la tua,

la meglio seggiolina era la tua,

ora ‘un  ci vieni più e l’ho data via.

 

 

Per tornare a nostro libro, quello del Bandi, tra la pagina 68 e la pagina 70, si racconta di come Garibaldi, una volta partiti da Quarto, invitasse i suoi garibaldini a cantare, tutti insieme, anche per rinfrancarsi. Egli stesso scrisse delle parole che il Bandi per l’appunto avrebbe dovuto musicare:

 

Lo stranier la mia terra calpesta,

il mio gregge macella – il mio onor

vuol strapparmi – ma un ferro mi resta

un acciar per ferirlo nel cuor.

Non sei stanco di giogo, d’oltraggi,

di codarde lisinghe, d’inganni?

Questa terra – servili e tiranni

solo porta – ma prodi non più!

Lo stranier, …

 

Il buon Giuseppe (Bandi, non Garibaldi) tentò di adattarla ad una romanza della Norma di Bellini e ad un’altra tratta da un’opera del Verdi (Giuseppe pure lui), non ricordo se l’Ernani o altra. Sta di fatto che male riusciva l’abbinata. Insomma tira che ti ritira, i garibaldini intonarono: La bella Gigogin….!

 

Ma torniamo adesso al libro che racconta il Coro dei Minatori di Santa Fiora, nel grossetano, ai piedi del Monte Amiata. No, anzi, prima debbo sottolineare come, nel libro sull’avventura dei mille (e più) del buon Bandi (anche se finì reazionario), in un paio di occasioni o tre almeno si fa esplicita nota della presenza della malaria, in Sicilia dapprima, e poi nel sud del Continente (fuori Napoli, p. es., poco prima della battaglia finale di Capua): “Era una giornata, in cui pativo fortissimo il mal di testa, poiché l’aria di quelle maremme m’avea messo addosso un po’ di febbre, e il medico mi faceva ingoiare il chinino; sicché …).

 

Eccoci dunque ai canti del coro e al libro a loro dedicato (sia i canti sia il coro).

 

Immaginatevi di essere nella II metà del 19° secolo, e, a seguire, nella prima metà del successivo, il 20°.

 

 

 

2

 

“In Maremma si scendeva annualmente, …, per il taglio dei fieni e, prevalentemente, per le lunghe pratiche della mietitura….

 

‘Felici gli opranti che potevano dormire così bene e profondamente! […] Parevano morti che aspettassero, in quel luogo occulto, un seppellitore: distesi, … Spiravano un orrendo fetore d’aglio, essendosene fregate le mani e il viso per allontanare le vipere e le tarantole … […].

… Un buon bicchierino di cattiva acquavite, ed un capo d’aglio, che scaccia la malinconia, la malaria e le serpi, fu dispensato a lui, come a …, Così corroborati… “.

……………

Il sole si celava qualche volta sotto i bianchi, immobili nuvoloni, ma, anche coperto, era scellerato, e spandeva un bollente oceano di luce, e incaloriva il padule alla turpe generazione de’ miasmi, e inveleniva, contro uomini e contro bestie, mosche, vespe, tafani. Fradici di sudore, come già erano stati fradici per la guazza prima di giorno, falciavano, legavano le spighe, battevano il grano, caricavano sacchi o paglia nei carri; e i carri partivano …

…………….

La comare (*) aveva già dato a tutti una toccatina, ma non

 

 

* la comare: così la chiamano la febbre maremmana. D. Carlotti, 1865, … : Le febbri maremmane (leggi: febbri malariche)  si presentano con un freddo intensissimo, al quale succede una reazione ugualmente intensa con un caldo affannoso. Il paziente sta dalle 14 alle 20 ore in uno stato quasi miserando; finalmente rimane libero; ma si rinnuova questo infausto stato, o a sistema terzana rio semplice, o a terzana rio doppio, o a quartana rio. Chi disgraziatamente è attaccato da queste febbri e non se le può per fretta staccare, dovendo d’altronde continuare ad abitare la Maremma, va soggetto ad affezioni di fegato e di milza, o varicosità dei vasi sanguigni, alla cachessia miasmatica e ad altretali vizi, che non rendono davvero piacevole la vita fisica.

 

 

s’arrendevano così per fretta, finché ora l’uno ora l’altro, a piedi o col  calesse della masseria, s’avviavano verso il più vicino spedale della maremma deserta o al cimitero. E il ministro, che si schermiva dalle febbri con buon vino di Montalcino, scriveva per nuova gente ….

Un vecchino, sebbene la comare gli facesse batter le gengive in modo che desiderava, con quell’ardore, il canto del suo focolare, nonostante, ricordandosi di che fame aveva patito tutto l’inverno con la famiglia, quando la febbre un po’ gli calmava, si rimetteva subito, invece d’andarsene allo spedale, giù con la falce, che poi alla fine

 

 

gli sdrucciolò dalle mani, e cadde sfinito sull’ultime spighe che aveva mietuto.’

 

E proprio il lavoro nei campi in Maremma diventa l’oggetto anche della poesia popolare a sfondo sociale. Come ad esempio nella composizione Nei campi di Antonio Gamberi:

 

Mentre luglio riporta i giorni ardenti,

mi tornano a memoria i tempi in cui

soventi volte a lavorare io fui

nelle nostre maremmane pestilenti.

Nel mezzo ai campi squallidi e silenti

che il sole infiamma dei calori sui,

io, curvo, recidendo il grano altrui,

intorno udia stormir falci ch’esala

su dalla limacciosa acqua stagnante,

per cui l’agricoltor s’infetta e ammala.

E, come sfida al caldo soffocante,

mi sento ancora il garrir della cicala,

tra le siepi, tra i boschi e sulle piante.

 

Ma anche i carbonai….: (La ballata del carbonaro):

 

Vita tremenda vita tribolata

……………………………..

Per San Giovanni  si fece fagotto

Mezzi ammalati di febbre quartana

Ritorno a casa stracanato e scotto

Senza un quattrino e con la febbre addosso.

 

……………………………………………………. “

 

 

 

 

Una poesia di Sandro Penna dedicata a ……:

- - -

 

La luna di settembre su la buia

valle addormenta ai contadini il canto.

 

Una cadenza insiste: quasi lento

respiro di animale, nel silenzio,

salpa la valle se la luna sale.

 

Altro respiro qui, dolce animale

anch’egli silenzioso. Ma un tumulto

di vita in me ripete antica vita.

 

Più vivo di così non sarò mai.

3

 

ACQUA

 

E’ avvelenata o la posso bere?

 

[un racconto africano riportato su Nigrizia]

 

«Il viaggio non dovrebbe durare più di due giorni», gli aveva garantito la madre, consegnandoli alcuni brandelli di carne secca e dell’acqua in una zucchetta. «Questi dovrebbero bastarti», aveva aggiunto.

A metà del terzo giorno, però, Njoroge non riusciva ancora a scorgere le colline sulle quali era situato il villaggio della nonna. «Devo avere smarrito il sentiero», pensò. Il sole era una palla di fuoco nel cielo, la sete gli bruciava la gola e l’acqua era terminata. «Se non trovo subito una sorgente, morirò di sete», si disse.

In lontananza vide una piccola macchia di verde. «Là ci deve essere dell’acqua», sospirò Njoroge, affrettando il passo. Un’ora dopo, era davanti a una pozza di acqua. Si inginocchiò, immerse le mani nell’acqua, le unì a coppa, ne raccolse un po’ e fece per accostarsela  alle labbra. Ma una voce lo raggelò: «Io andrei cauto con quell’acqua!».

Njoroge si arrestò: aprì le mani e lasciò cadere il prezioso liquido. Sollevò quindi gli occhi, si guardò attorno e vide due guerrieri masaai con una ragazza. Capì subito di essere finito nella macchia nota a tutti come “dei-tre-giovani-masaai”. I genitori gli avevano raccontato di questo boschetto: «E’ sperduto nella savana e abitato da tre giovani masaai. La particolarità di questi giovani è che due sono  bugiardi e uno, invece, dice sempre la verità».

Il primo guerriero gli disse: «Quell’acqua è avvelenata».

La ragazza: «L’acqua non è avvelenata».

E il secondo ragazzo: «La ragazza mente».

 

Che decisione deve prendere Njoroge?

 

 

 

La risposta è a pagina nove

 

 

 

AMBIENTE

 

Per dirvi che gente siamo…..

 

(in una  lettera del 23 luglio)

 

Gent.ma Direzione Ente Parco dei Monti Sibillini,

 

siamo un gruppo di escursionisti del comprensorio perugino (lungo il corso del Tevere e in territorio d’Arna) che spesso si recano nel comprensorio dei Sibillini per godere dello splendido paesaggio naturale.

Ieri, 22 luglio, abbiamo effettuato una escursione da Capanna Ghezzi, Forca Viola, creste e Cima del Redentore, Rifugio Zilioli (tre sprovveduti turisti vicentini, colà incontrati, erano ivi saliti dal F.ca di Presta, quasi per scherzo, e senza acqua o viveri in quanto sicuri dell’ospitalità del Rifugio. Abbiamo detto loro di aver ragione, trattasi solo di un  desolato bivacco), Laghi di Pilato (numerosi gli esemplari del Chirocephalus marchesonii, ma ci è parso solo nel laghetto più a nord), e ritorno a Capanna Ghezzi sempre via F.ca Viola. Abbiamo trovato la zona intorno alla capanna come una discarica a cielo aperto, un segnale turistico giallo arrugginito e rotto che è lì da anni, con le migliaia di pecore che pascolano nei paraggi che sono uno spettacolo bello da vedere, ma intorno alla costruzione vi è un degrado che è difficile da giustificare.

I sentieri invece sono puliti (anche se ho raccolto 5 bottiglie di plastica) sebbene  manchi assolutamente segnaletica e spesso chi viene da fuori si perde tra i sentieri. In alcuni tratti di sentiero si trovano paletti arrugginiti non leggibili, alcuni paletti di legno con strisce di plastica colorate temiamo siano abusivi (o indicatori di cosa?). La piana di Castelluccio dovrebbe essere liberata da quelle capanne di lamiera ed altro materiale che non è un bel vedere, soprattutto per coloro che sono più sensibili all’aspetto estetico come i molti stranieri che arrivano dal nord Europa. Basterebbe che le baracche fossero costruite tutte con legno ed il problema sarebbe risolto.

Così credo che sia necessario un controllo più assiduo da parte delle guardie del parco nei confronti dei visitatori soprattutto la domenica, anche perché in tanti anni non ne abbiamo mai viste o incontrate.

I Monti Sibillini sono un patrimonio inestimabile, e l’Ente Parco, secondo noi, dovrebbe averne più cura.

Se potete e credete, desidererei una risposta.

 

Cordiali saluti,

Lamberto Salvatori

4

 

Il ratto della Bruna ripercorrendo il percorso percorso

                                          

Adelmo abitava a Fratticiola, quasi  nella sua parte più elevata, ove oggi c’è il serbatoio dell’acqua, ben seicentosettantacinque metri sul livello del mare, laddove il resto del vecchio piccolo borgo in parte fortificato si attestava e si attesta tra i seicentosessantadue e i seicentosessantotto. Beh, gli abitanti di quassù sono molto orgogliosi e puntigliosi…

Bruna abitava molto più sotto, vicino al castello, quello che in molti ancora chiamano il Castello del Piccione e che una volta era noto anche come Palazzo Guidi ma che oggidì è Col d’Albero, a trecentosettandue metri precisi precisi.

Si è nel bel mezzo della prima metà del ventesimo secolo. Adelmo e Bruna sono giovani. La Bruna è contadina, al pari dei fratelli e dei genitori ormai anziani. Anche Adelmo fa il contadino, ma per guadagnare qualche soldo in più si lambicca, quando può, in falegnameria. Si sono conosciuti l’estate precedente, alla fiera annuale dei muli e dei somari, equini da soma da soma che da tempo immemore accompagnano i carbonai nel loro duro lavoro autunnale ed invernale dalle proprio abitazioni alle cotte nei boschi (e a sera dalle cotte, sparse nelle macchie sottostanti, su a casa, a Fratticiola), per la preparazione del carbone vegetale, così utile quanto prezioso e necessario.

I due innamorati vogliono sposarsi, si cercano e si sognano, si vogliono bene, ma i tempi sono difficili e i genitori di entrambi non sembrano essere tanto d’accordo. Verso la fine della primavera, a pomeriggio inoltrato, il buon Adelmo prende la decisione e si dice: «Ora scendo giù, la rapisco, volente o nolente, la porto a Fratticiola e domani me la sposo». E così si muove.

Passa davanti alla chiesetta della Madonna delle Grazie (se tutto andrà bene porterà lì il suo ringraziamento) e si incammina lungo il sentiero che abitualmente tutti debbono percorrere per scendere al Piccione. Arriva al Monte delle Povere, dove si ferma un attimo, da qui a Calanonna e quindi, allorché il tramonto è vicinissimo, al Castello. Aspetta il primo buio e poi furtivamente entra, con una scala che sapeva esserci nel fienile, nella camera della sua bella Bruna, che riconosce dalle tende sia pur grezze ma che la contraddistingue dalle altre, scarne, spoglie e disadorne. Ritrosa ed incerta, Bruna inizialmente rifiuta; ma poi si lascia trascinare quasi passivamente dal suo Adelmo che di fatto se la carica sulle spalle, in una impresa che la Bruna crede ancora impossibile. L’Adelmo, con la sua morosa in groppa risale verso la Fratticiola, ma seguendo un itinerario in parte differente; vero che è buio inoltrato, ormai, ma vuole evitare la strada più frequentata. E pensare che Adelmo era anche zoppetto, non si sa se sin dalla nascita o successivamente, ma pur sempre in tenera età, lui rammenta, e neppure per quale causa.

 

                                     (segue in colonna dx → )

 

 

 

Sia al Fosso del Piccione, che debbono passare per eludere alcune abitazioni, sia dopo lungo la strada che sale e che da Calanonna porta al Colle della Lunga (sempre tra il Rio Dinano e il più lontano Rio Grande), non poche sono le insidie, e con la Bruna quasi sempre sulle spalle la fatica è doppia. Le piogge tardo-primaverili dei giorni avanti hanno reso il percorso più difficile. Pozze d’acqua melmosa sono spesso causa di scivolamenti e di cadute; ma il desiderio che Adelmo ha (ma anche la Bruna, e come no!) è più forte di tutto e di tutti. Arrivano così, stanchi, bagnati e sporchi, a Fratticiola, seguendo dopo il Brecceto una scorciatoia non a tutti nota, per nascondersi nella casa del domani sposo. E tutto questo percorso in tre ore, più o meno. Ma che felicità!

A distanza di molti anni la cosa che più resterà nella memoria di Bruna, come ha raccontato il nipote Alessandro, altro non è che questa brevissima esclamazione che fece tra sé e sé appena giunta nella casa del promesso sposo: «Sì, so’ arriveta a chesa sana e salva, ma so’ tutta impantaneta».

Nene

 

PS: è questo il racconto della Camminata dei Sentieri Aperti di domenica mattina 19 luglio 09

 

 

Di Vincenzo Cardarelli ecco una poesia estiva nell’estate che tra non molto lascerà spazio alla stagione autunnale………………..

 

Estiva

 

Distesa estate,

stagione dei densi climi

dei grandi mattini

dell’albe senza rumore –

ci si risveglia come in un acquario –

dei giorni identici, astrali,

stagione la meno dolente

s’oscuramenti e di crisi,

felicità degli spazi,

nessuna promessa terrena

può dare pace al mio cuore

quanto la certezza di sole

che dal tuo cielo trabocca,

stagione estrema, che cadi

prostrata in riposi enormi,

dai oro ai più vasti sogni,

stagione che porti la luce

a distendere il tempo

di là dai confini del giorno,

e sembri mettere a volte

nell’ordine che procede

qualche cadenza dell’indugio eterno.

5

 

 

Sulle colline del Chiugi perugino

(sensazioni di un emicranico recidivo)

 

L’itinerario  che Giannermete (Gianni, Ermete)  ha proposto al gruppo, con il prezioso aiuto, immagino, del fidato Louis (Luì,  Luigi), è sulle colline di Vaiano, piccolo forse grazioso borgo (più che per i rari raffinati palazzi, per i panorami che da qui si possono assaporare), della Municipalità di Castiglione, quello del Lago (il Trasimeno), borgo peraltro soprastante ad un più piccolo, ma non per questo meno bello, lago (quello di Chiusi). Il borgo è sito sulla dorsale collinare che da Petrignano del Lago si snoda sino a Cantagallina, passando per Pozzuolo, Casamaggiore, Gioiella, Lopi, Vaiano appunto, e Villastrada. Le colline superano i 350 metri sfiorandone i 400 nel punto più elevato poco a nord di Vaiano.

Il paesaggio qua è aperto, libero, dolce, stabilmente ondulato, dà respiro e affina le percezioni sensoriali dei più sensibili (o le percezioni sensitive dei più sensoriali):  sui colori, sui suoni, sui profumi di questa terra d’Umbria decisamente toscaneggiante.

Atavica terra di latifondisti, incontri o intuisci più i vecchi (se non antichi) palazzi padronali  che non case coloniche, non frequenti o rare, edificati con i rossi mattoni che si accendono di una luce particolare proprio nelle ore del tramonto, le ore che stiamo percorrendo. Le poche nuove costruzioni stonano, sembra, ma i campi di girasoli e di granoturco, i filari ordinati e ricchi di pregiati vitigni (e non soltanto Sangiovese o Montepulciano), gli alberi da frutto quali peschi, peri e susini, i vasti oliveti e i radi noceti, ne annullano l’impatto percettivo.

 

Sensazione

 

Nelle sere d’estate andrò per i sentieri,

pizzicato dal grano, pestando i fili d’erba;

ne sentirò, sognante, il fresco sotto

i piedi.

E al vento lascerò bagnare la mia testa.

 

Non dirò più parole, non farò più pensieri:

ma un amore infinito mi salirà nel petto,

e andrò molto lontano, sarò come

uno zingaro,

come una donna per i campi contento.

 

                                                   Arthur Rimbaud

 

Non rammento il nome dei due o tre piccoli nuclei di caseggiati che attraversiamo (la mancanza di una carta IGM mi impedisce di sostituire una fallace memoria), ma la loro pacata vitalità ti confonde, ti stupisce e ti rilassa. Nei punti più scoperti ed elevati puoi goderti la vista di Castiglione, di Panicale, di Paciano, di Città della Pieve, di Chiusi (Chianciano e Montepulciano sono nascosti come ovattati dal sole che sta scomparendo).        

 

 

A sera siamo ospiti (il contributo sarà proporzionale più che alle semplici quanto gustose cibarie locali al nettare rosso che ti offrono nel calice di vetro doverosamente e con calore offerto) di Madrevite, una cantina ancor fresca d’età in quel di Cimbano (se errore non commetto), tra Vaiano e Villastrada, che, come recita la bella brochure riguardo questo territorio:

 

“… sorge al confine tra Umbria e Toscana in un’incantevole posizione panoramica a metà tra il Trasimeno e la bassa Valdichiana, sulla stessa dorsale collinare dove si trovano il lago di Chiusi e quello di Montepulciano. Specchi d’acqua che riempiono di sé il paesaggio e riflettono il verde delle colline che fanno da cornice… Documenti dimostrano che da tempi immemori in queste zone si coltiva la vite. Più tardi saranno i longobardi a fondare un’azienda agraria (la ‘curtis’) in questa che da sempre è considerata un’area particolarmente ricca di prodotti agricoli ed ittici. Osservando dall’alto questo piccolo lembo d’Umbria si possono ammirare tre distinti specchi d’acqua, due piccoli ed uno molto grande. In realtà, prima dell’azione di bonifica dell’uomo, l’origine geologica dei tre laghi era comune. La località in cui si trova attualmente Madrevite si chiamava un tempo Podere Mastronucci o Mastronuccio, un toponimo già indicato in un documento risalente al 1651.”

 

Madrevite. Perché? Perché:

 

“La madrevite è un antico arnese che veniva usato in cantina per fissare l’usciolo alle botti colme di vino. Un legame col passato e con le tradizioni del posto che, unito alle moderne pratiche agronomiche e di cantina, costituisce la vera essenza della mia azienda” ,

 

scrive Nicola Chiucchiurlotto.

 

Ma… ‘non solo vino…’ recita sempre la delicata brochure:

 

“Uno stupendo oliveto iscritto nell’area Dop Umbria, con piante secolari di Moraiolo, Frantoio, Leccino e Dolce Agogia (una cultivar autoctona del Trasimeno) permette di ottenere un sontuoso olio extra vergine di oliva che rivela tutta la classe e la dolcezza di questi colli. Un balsamo dalle qualità eccelse che ben si sposa ai piatti e ai prodotti della tradizione umbra, come la fagiolina del Trasimeno (assaggiata e riassaggiata) …”

 

Un percorso di tre ore o poco più, una serata con cena all’aperto di un paio d’ore, semplici e riposanti (la cena, le ore, l’ambiente), non possono che esser vanto di questa iniziativa, promossa dalla Comunità Montana con i Comuni dell’area di questa ancor verde Umbria a dispetto del caldo quasi torrido che imperversa in questo fine luglio sulla nostra terra.

 

 

                                             D  & G

 

6

 

 

 

AVVISO INIZIATIVA A FIRENZE

 

(A LATO, COLONNA DX)

 

Il Collega ed amico Bernabei lo conobbi anni addietro a Firenze, ove vive e allora lavorava.

Me lo presentò un vecchio amico, Roberto Rossetti.

Il Bernabei, medico ematologo, era ed è appassionato di scienze mediche ed umane ed arte. Visitai una mostra sulle sue creazioni pittoriche concernenti la vita parassitaria e il loro rapporto con la natura e l’uomo. Originale e assai suggestive. Non mancate a questa sua nuova esposizione.

Ricordo anche come Pietro Antonio Bernabei abbia contribuito a questo notiziario inviando in almeno un paio di occasioni sue due poesie, moderne e fedeli al suo credo artistico, scientifico ed umano.

 

D. Crotti

 

 

LA   FOGLIA   GRIGIA

 

“… come le dicevo, odio la debolezza, ispettore, e odio la rassegnazione. Odio gli studenti accidiosi e i contadini che si lasciano morire di malaria…”

……………………….

“Ma il passatempo gli è ugualmente gradito: può tormentare gli abitanti del villaggio col rumore degli spari, e sfogare l’irritazione che gli procurano il tramonto troppo rapido, le zanzare, la convalescenza da un atttacco malarico… “

 

Ecco un libro avvincente: “LA FOGLIA GRIGIA” di A. Cannevale nell’edizione EINAUDI STILE LIBERO, 2009), scoperto, lo ammetto, per puro caso.

“La foglia grigia” (un coacervo di ingredienti allucinogeni?) è una sorta di romanzo storico, tra finzione e realtà, tra verità e fantasie, ambientato essenzialmente nella Perugia della II metà del XIX secolo.

Vi (ri)troviamo la massoneria e sette più o meno segrete (un accenno pure alla Società di Mutuo Soccorso), la rivolta di Perugia (il 29 giugno) e l’Unità d’Italia, preti, futuri papi, socialisti e anarchici, borghesi più o meno illuminati (con le loro pubbliche virtù [bah] e vizi privati [quelli sì]), le febbri malariche (un accenno pure al canto popolare), città e contado (così diversi e così collegati), nomi dimenticati di viuzze dimenticate, il Carducci (furbastro poeta e professore) tra Garibaldi e Mazzini (così vicini e così lontani tra loro), insomma un affresco di ingredienti semplici, piccanti, curiosi, grotteschi, macabri.

Lo si legge tutto di un fiato e, chissà, quali analogie con storie e leggende più recenti, sin’anche attuali, quali e/o quanti spunti per comprendere  misteriosi (?) avvenimenti recenti o meno recenti. Fa piacere leggere come l’autore ringrazi  anche l’amico Alberto Mori, dà interesse rileggere nomi noti e momenti vari del nostro  

                                                                     (continua a pagina 9)

 

 

Pietro Antonio Bernabei

 

RELIQUIE

(da reliquus: ciò che rimane)

 

SCULTURE CELLULARI

 

20 agosto – 15 settembre

 

Inaugurazione giovedì 20 agosto 2009, ore 17.

Ingresso libero.

 

Museo di Storia Naturale  Sezione di Zoologia ‘La Specola

Firenze, via Romana 17

(9.30 – 16.30; chiuso il lunedì)

 

L’autore, che ha lavorato a lungo nell’ambito della ricerca biomedica, ha isolato una linea cellulare cui è stato dato il nome di FLG 29.1 (la sigla FLG è l’acronimo di Florence Leukemia Group), le cui cellule sono in grado di riassorbire l’osso.

Tali cellule sono attualmente impiegate per realizzare in vitro delle microsculture, o sculture cellulari, a partire da lamine ossee bovine.

Nel corso della mostra Reliquie, che si svolgerà dal 20 agosto al 15 settembre 2009 presso il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, sarà presentata una prima serie di sculture cellulari. Il titolo è stato scelto nel senso etimologico del termine (da reliquus: resto, residuo. Ciò che resta di qualsiasi cosa).

La realizzazione di queste opere, che come si può ben comprendere richiede la disponibilità di adeguate strutture di laboratorio, è stata resa possibile dall’ospitalità del Dipartimento di Patologia e Oncologia Sperimentali dell’Università, nel quadro delle proprie attività extracurricolari.

Da molti anni l’autore svolge una ricerca artistica nell’ambito di contaminazione tra arte e scienze della vita. Già due volte ha esposto le sue opere al Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze, Sezione di Zoologia La Specola, nel 2000 in una mostra intitolata “Bioarte” e nel 2003 in una dal titolo “Simbionti”. E’ da rilevare che le contaminazioni fra diversi saperi rappresentano attualmente un fertile territorio di frontiera nell’ambito delle ricerche artistiche contemporanee.

Questa mostra nasce su suggerimento della Prof. Luciana Lazzeretti in occasione del Corso di Perfezionamento in Economia e Gestione dei Beni Museali e Culturali, marzo 2009.

 

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FOGLIO   VOLANTE

COMPILATO DA IVAN DELLA MEA, FLAVIO COSTANTINI, NINO CROCIANI, GIOXE DE MICHELI

 

GUERRA   ALLA   GUERRA

QUANDO IL FRONTE ERA FRONTE

                                         Parole e musica di Ivan della Mea

 

Quando il fronte era fronte                             Quando il fronte era fronte…                   Quando il fronte era fronte…

tra i compagni, nel mondo                              ieri ho visto due foto                                 ma dov’è l’unità,

so poteva sperare                                            così chiare, compagni,                               qui si deve lottare

nella libertà.                                                   Da sembrare quasi belle.                            Per la libertà.

 

Ma non  c’è unità                                           Nella prima ho visto                                 contro l’imperialismo

per contrasti d’idee                                        un negro ammazzato                                 affamato di guerra

E gli effetti compagni                                    giù nell’Alabama                                       non si parli di pace

l potete vedere.                                               Per la sua nera pelle;                                 ma di guerra alla guerra.

 

I mercanti di morte                                        in quell’altra un ribelle                              E nell’ora di lotta

e nel Congo e in Vietnam                              del Vietnam, partigiano,                            per la sua libertà

han serrato le porte                                        affogato in un fiume                                  tutto il proletariato

alla libertà.                                                     Da un americano.                                      troverà l’unità.

 

Contro l’imperialismo                                   Ed un titolo c’era                                       Ed all’imperialismo

più fascista e rapace                                       “Bombe al Napalm                                    più fascista e rapace

noi sappiamo soltanto                                    sganciate dagli U.S.A.                               noi potremo imporre

biascicare di pace.                                          Sopra il nord Vietnam                               la nostra pace.

 

 

 

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disegno di …………………

 

 

PUBBLICATO IN MILANO DALLE EDIZIONI DEL GALLO NEL GIUGNO 1965

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Commento alla pagina precedente:

 

L’idea mi è stata indirettamente suggerita di Nanni, quando il 32 luglio mi scrisse di leggere la pagina 37 del quotidiano l’Unità: … La canzone popolare e i suoi naufraghi… (di A. Satta) … con 5 brevissime domanda a D. Fo su Ivan; e così… ‘cantava con tutto se stesso, con il canto portava avanti la sua lotta’, …. oppure ‘guarda è stato il primo a cantare “Ho visto un re” …’ e ancora ‘… oggi dichiariamo di voler restare in Afganistan, non abbiamo il coraggio di chiamare guerra la guerra, …’ e così via…

 

 

 

RISPOSTA AL QUESITO DEL RACCONTO DI PAGINA QUATTRO:

 

Njoroge  può bere tranquillamente l’acqua. Infatti, poiché il primo dei ragazzi e la ragazza affermano cose opposte, uno di essi mente e l’altro dice il vero. E poiché dei tre amici i bugiardi devono essere due, allora ilo secondo ragazzo (quello che afferma che la ragazza è bugiarda), mente di sicuro. Per cui la ragazza dice la verità: «L’acqua non è avvelenata»

 

 

 

Seguito de LA FOGLIA GRIGIA

 

Risorgimento, volutamente reinterpretati (!?) o stigmatizzati; è una scrittura a tratta anomala ma che crea suspence e afflato tra passato e presente, che stimola il ricordo di fatti e percorsi storici, che sottende una realtà tuttora controversa, contraddittoria, complessa, e non certo schietta, pulita, banale.

 

Riporto il I capoverso di pagina 256;

 

   ‘Da Terni, Masi si era trasferito a Genova, dove aveva messo su un’impresa di commercio internazionale. Era diventato amico di Camillo Benso conte di Cavour, e attraverso di lui aveva allargato il suo giro di relazioni. Le porte del Messico gli erano state aperte dal ministro Benitp Juarez, braccio destro del Comonfort. Aveva comprato per procura vasti appezzamenti di terreno in Messico e poi si era imbarcato, portando con sé una compagnia di braci campagnoli, per mettere su una piantagione di vaniglia.  Peccato che molti degli aspiranti coloni erano morti, e che molti se n’erano scappato, istupiditi dal caldo, dal troppo lavoro e dalla malaria.’

 

LA MIA SERA

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre  gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

        Che pace , la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell’aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

         nell’umida sera.

 

E’, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

           nell’ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell’aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l’ebbero intera.

Né io… e che voli, che gridi,

             mia limpida sera!

 

Don… don… E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

     Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nella…

       sul far della sera.

 

[Giovanni Pascoli]

 

 

 

www.latramontanaperugia.it  (sempre ricca e utile!!!)

 

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OMAGGIO A KEZICH

 

“Il tempo perduto, quando lo ritroviamo dentro di noi, non va contemplato con il distacco dello spettatore. Pretende di essere abitato”.

 

Quando lunedì 17 agosto il mio caro Luca mi manda questo messaggio (via telefonino personale mobile):  “Saluta anche Kezich. Occio Ermanno…”, mi sono detto cosa volesse voluto intendere. Il quotidiano del giorno successivo mi rivela l’arcano tutt’altro che arcano: “Addio a Kezich, il maestro della critica”.

Non ho mai conosciuto Tullio Kezich, ma ne conoscevo da tempo lontano le capacità di critico cinematografico, dai tempi quando papà (era ancora giovane ed io ero piccolo piccolo) si dilettava di ‘cimena’: quanti fascicoli di periodici cinematografici giravano per casa, allora [e che peccato averli buttati via!], e già allora, forse il nome di Kezich cominciò a circolare nella mia testa, sino ai tempi del liceo quando a casa si leggeva il ‘Corriere della Sera’ (‘Il Giorno’ sarebbe arrivato poco dopo) e Tullio Kezich era una firma sulle pagine culturali di quel quotidiano (se male non ricordo), per finire a tempi meno lontani quando pure io mi dilettavo di lungo- e corto-metraggi d’autore (i ‘Lunedì del Modernissimo’ ne sono testimoni). Ma il ricordo più importante, sia pur indiretto, è molto più attuale; risale a questi ultimi due anni, ed è duplice: quello di aver apprezzato alcuni film-documentari (suggestivi ed emozionanti) da lui firmati assieme ad Ermanno Olmi e a Mario Rigoni Stern (tutti e tre grandi amici tra loro e ‘vicini’ da lungo tempo di casa) sulle storie dell’Altipiano, e quello di aver conosciuto Gianni, il figlio, antropologo in quel di S. Michele all’Adige, e persona cordiale, vivace e simpaticissima. Il merito di tutto questo è di un altro gran bel Gianni, il Rigoni Stern figlio di Mario, che mi e ci ha permesso di sapere, scoprire, ammirare, un mondo meraviglioso che non va disperso né dimenticato.

Daniele

 

 

A proposito di Brigata Pretolana

 

Testimonianza di Luigi S., classe 1955

 

(Testimonianza raccolta dal vivo da Daniele Crotti a Perugia, martedì 18 agosto 2009)

 

In contro Luigi una mattina, quasi per caso, nel suo posto di lavoro. Un saluto cordiale e subito mi chiede: “Allora, con questa Brigata Petrolana?”. Sa delle nostre performances al riguardo e allora subito ne approfitto per stimolarlo sull’argomento. E mi racconta.          

 

 

Mi racconta che, avrà avuto 16 anni, siamo quindi ai primissimi ’70, e allora ogni anno c’era ‘CANTAUMBRIA’, una sorta di spettacolo-concorso (gratuito) per gruppi di musica rock che allora stavano emergendo (e ne cita alcuni).Quell’anno egli ci andò, forse per la prima volta. Gli piaceva la musica moderna. Quella sera, forse un sabato, c’erano ‘I Rilevati’ (ricorda un tal Giorgino) e ‘Le perle nere’; presentava Toni Bani. Erano alla Sala dei Notari, dove solitamente si teneva questa manifestazione (ma a volte anche al Lux, giù alla stazione, rammenta l’amico Luigi). Ricorda quella sera ancora come fosse ieri l’altro, dice. Tra l’esibizione di un gruppo e l’altro, ad un certo momento arrivò ‘La Brigata Petrolana’ (noto che insiste a chiamarla così, ma penso al modo erroneo che ha il dialetto umbro di anticipare o posticipare a volte la lettera erre). Ricorda che erano 3 o 4, tutti dell’età dei loro padri (usa il termine ‘attempatelli’), che buffamente cantavano accompagnandosi col suono non di strumenti veri ma di coltelli, un tamburello, e altro ancora. A lui piacquero, soprattutto perché originali, simpatici, divertenti. Però era come se stonassero. “Mi ricordo”, dice, “che dissi che in fondo erano bravi ed un mio amico mi rispose: ma come fanno a piacerti, sei anche tu dell’età della pietra?”. Riflettendoci, anche a me parve che mettere accanto il vecchio con il nuovo potesse stonare, sembravano ‘fuori luogo’. Alla mia domanda su come avesse interpretato la rappresentazione della Brigata Pretolana, Luigi mi risponde che per lui erano quasi, forse, una provocazione. A dire che in quegli anni ’70 quando era la musica ormai a sopraffare la voce, loro cantavano come negli anni ’50, quando era la voce che primeggiava rispetto agli strumenti musicali. In altre parole, loro volevano far capire alle nuove leve musicali che la voce ancora poteva funzionare senza dovere ricorrere all’artifizio degli strumenti musicali, magari elettrici. Era come se un componente della Brigata dicesse: “Vedete, cari giovani, come siamo ancora bravi a cantare, noi, già sessantenni o settantenni, senza il supporto di chitarre, batterie e pianole varie!?”. 

Ho spiegato allora a Luigi come è nata (quasi per caso, in fondo) l’idea di questa ‘Nuova Brigata Pretolana’, dicendogli che con la presenza di Roberto Alunno, unico sopravvissuto di quel gruppo, e altri 5 o 6 giovani adulti tutti di Pretola che da piccoli avevano conosciuto il gruppo medesimo e quindi lo rammentavano (“uno di questi giovani adulti, è il figlio di uno di loro, un altro credo il nipote”, ho sottolineato), stiamo cercando di far rivivere quell’epoca, quei momenti, quelle storie di vita. Beh, sapete cosa mi ha detto? Questo: “Ah, ma allora si chiamava la Brigata Pretolana perché erano di Pretola”; “Certo”, ho replicato io”. “E pensare”, dice Luigi, “che ho sempre pensato che si chiamasse Brigata Petrolana dal nome di Ettore Petrolini; in fondo anche lui era bizzarro, fantasioso e curioso come loro”.

 

 

 

“ Esistiamo fintanto che siamo ricordati ” (Carlos Luiz Zafon)

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Daniele Crotti

Inserito lunedì 24 agosto 2009


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