22/12/2024
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Orlando Spigarelli, maestro di lingua e dialetto
Ripartiamo dal suo insegnamento per contrastare i banalizzatori del dialetto. La questione della grafia del dialetto


Il maestro Spigarelli
Orlando Spigarelli, nato nel 1926 in Francia da emigranti eugubini, rientrò in Italia nel 1947 per diventare insegnante elementare, prima in Sardegna e poi in Umbria. La sua esperienza di vita lo aveva messo a contatto con realtà linguistiche così diverse, ma capaci di coesistere, come il francese e l’italiano degli emigrati, o il sardo e l’italiano della scuola.
Quando finalmente giunse ad insegnare nella campagna eugubina, subito si accorse del profondo stacco tra la lingua ufficiale, quella della scuola, e il dialetto parlato dai ragazzi e dalle loro famiglie: un dialetto stretto, arcaizzante, legato alla realtà dei tanti poderi mezzadrili isolati tra colline e montagne, privi di vere e proprie strade, senza veri collegamenti esterni.
Spigarelli perseguiva l’obiettivo di portare gli alunni alla padronanza della lingua, e cioè all’uscita dall’isolamento linguistico e culturale cui sembravano destinati: ma l’impatto con la realtà sembrava davvero scoraggiante. Ma Spigarelli, al contrario, si impegnò a fondo, e soprattutto cominciò a riflettere su come saldare le due realtà linguistiche: e il primo passo fu quello di riconoscere il profondo valore della cultura di quei bambini e di quelle famiglie. 
Non più quindi disprezzo del dialetto, e di quelli che lo parlavano; non più il dialetto considerato come cascame della lingua, non più il dialetto usato come oggetto bozzettistico, da irridere; ma riconoscimento del suo valore comunicativo in ambiti precisi, come quello della famiglia e della piccola comunità locale, accanto alla necessità di arricchire e ampliare lo spazio linguistico degli alunni con la padronanza dell’italiano.

Il libero comporre e il dialetto
E perciò cominciò a chiedere ai suoi alunni di raccontare liberamente (il “libero comporre”) le piccole e grandi vicende familiari, i discorsi, le storie casalinghe, utilizzando l’italiano per la narrazione ma interpolando le frasi dialettali del discorso diretto, cioè le precise parole dette in casa. Da notare che le frasi in italiano erano scritte con la penna nera, mentre quelle in dialetto erano in inchiostro rosso: i due linguaggi coesistevano, ma nello stesso tempo si distinguevano perfettamente:

Il babbo voleva comprare la televisione, ma la mamma non la voleva, e al babbo diceva:
- E, va via, a mò la faremo, ma costa troppo!
Dopo averla comprata, la mamma ci ha detto: 
- A mò éte da ubidì perché ‘sti quattrini l’émo spesi per vo altri!

Per i bambini fu una liberazione, e ne nacque una produzione vastissima di testi. Spigarelli li raccoglieva con attenzione, e nel 1967 ne fece una pubblicazione, con le sue riflessioni, dal titolo “Il libero comporre e il dialetto”. Il libro, autoprodotto, ebbe subito una vasta risonanza, e fu recensito su moltissime riviste; ne parlarono linguisti ed esperti del livello di Manlio Cortelazzo, Tullio De Mauro, Franca Pinto Minerva, Tullio Telmon, Luca Serianni, Alberto Sobrero, e tanti altri. In seguito a ciò, l’editore Le Monnier pubblicò nel 1973 un secondo volume di Spigarelli, “Il dialetto e la scuola”.
Il pensiero di Spigarelli era articolato e ben collegato alle più avanzate proposte pedagogiche e linguistiche contemporanee, ed anzi prefigurava in qualche modo quell’idea di “campo linguistioco” allargato in cui dialetto, italiano, lingua straniera si integrano ed arricchiscono, pur mantenendo ciascuno una sua specificità d’uso.
Partendo dalla situazione di isolamento culturale e linguistico dei suoi alunni, Spigarelli ha avuto l’intuizione di trasformare il problema in risorsa: il possesso dell’italiano rimaneva l’obiettivo principale, il contenuto e strumento di liberazione dalla chiusura linguistica, ma il dialetto poteva entrare in questo processo come base di partenza, per un confronto e un arricchimento continui. Nessuna confusione tra lingua e dialetto, dunque, ma un grande sforzo per aiutare il bambino a costruire il proprio ragionamento, cioè a pensare: “bisogna insegnare a pensare“, prima che a scrivere, e il bambino elabora il proprio pensiero utilizzando tutti gli strumenti linguistici che possiede. Non rinnegando il dialetto, ma collocandolo nell’ambito locale e familiare in cui ha senso, e inquadrandolo in una cornice (narrativa e/o descrittiva) in lingua. Tant’è che ogni strumento linguistico ha il suo colore: nero l’italiano, rosso il dialetto. 

Spigarelli e il rinnovamento culturale degli anni Sessanta
Nel 2018, decennale della sua scomparsa, lo studioso Luigi M. Reale prese l’iniziativa di ricordarne la figura in modo approfondito, anche andando a scavare sui materiali inediti custoditi dalla famiglia. Ne è nato un volumetto, curato dallo stesso Reale, “Omaggio al maestro Orlando Spigarelli”, in cui, oltre a una accurata rassegna bibliografica, sono raccolti gli interventi di Giancarlo Sollevanti, Walter Pilini e chi scrive. 
In quella occasione, è stata fatta anche una panoramica sul clima culturale in cui si è sviluppato il pensiero di Spigarelli, il clima degli anni Sessanta e del profondo rinnovamento che in quel periodo aveva investito la pedagogia, la linguistica, l’antropologia. 
Ricorderò solo le figure dell’antropologo Tullio Seppilli; il linguista Francesco A. Ugolini, che nel 1967 organizzò proprio a Gubbio il VI Convegno di Studi Umbri dedicato appunto ai dialetti della regione; e a livello nazionale il linguista Tullio De Mauro. Sul piano pedagogico-didattico, don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana, le cui condizioni di partenza sono tanto simili a quelle in cui opera Spigarelli, e in cui soprattutto appare dominante la motivazione dell’apprendimento della lingua come strumento di cittadinanza; e poi l’elaborazione del Movimento di cooperazione educativa, che parte dalle proposte del maestro francese Célestin Freinet: e anche in questo caso, al centro della riflessione c’è la didattica della lingua e l’uscita dall’isolamento linguistico. Tra le figure più celebri, ricordo Mario Lodi e Bruno Ciari.
Un clima dunque di fermento e di innovazione, che trovava proprio nelle località periferiche e nelle scuolette isolate il terreno ideale per sperimentare un approccio didattico che valorizzasse l’alunno e la sua cultura, e permettesse l’uso sociale del linguaggio come strumento di accesso alla cittadinanza effettiva. Un tema basilare, che comunque già trovava le sue basi nei Programmi didattici per la scuola primaria promulgati dal ministro Ermini nel 1955.
Ma va detto che, se questo è il clima in cui cresce l’esperienza educativa di Spigarelli, la sua elaborazione è del tutto personale ed originale: ai problemi della didattica della lingua egli infatti si sforza di trovare soluzioni positive e adatte alla situazione concreta delle scuole in cui insegnava, alle esperienze concrete degli alunni con cui interagiva. Per questo la sua riflessione si concentra tutta sul “libero comporre“ (che non a caso dà il titolo al suo primo libro), e sviluppa un piccolo ma coerente sistema di avvio alla scrittura basato sulla concretezza sensoriale applicata all’esperienza del bambino, attraverso una scaletta di domande-stimolo e di proposte lessicali. Ed infatti Spigarelli, nella citata prefazione a Il libero comporre e il dialetto, scrive:

"L’accortezza del maestro sta proprio nel sapere individuare il nucleo di pensieri, d’immagini, d’impressioni diverse scaturite dall’uso opportuno dei cinque sensi e dalla sensibilità del fanciullo e farglieli esprimere: delicatamente, con il massimo rispetto per tutto ciò che il fanciullo ha saputo creare o crearsi" (p. 42).

Le scritture del "libero comporre" 
Dunque Spigarelli rifiuta “l’idea del tema unico ed imposto“, e parla di “libero comporre“, con una certa assonanza con il “testo libero“ di Freinet, di Lodi e di Ciari. Ne risultano soprattutto testi narrativi, che descrivono con vivezza la vita dei bimbi entro il ristretto orizzonte della famiglia e del podere: testi che ancor oggi non cessano di affascinarci, e descrivono la società mezzadrile del tempo molto meglio di un libro di storia. 
E al testo in prosa, Spigarelli affianca la possibilità di scrivere poesie: piccole graziose poesie di bambini, filastrocche o lasse, sostenute da una metrica intuitiva e dalla rima.
Altro elemento caratteristico della didattica linguistica di Spigarelli è la scrittura collettiva per piccoli gruppi, soprattutto per le poesie, che consentono di condividere sentimenti ed impressioni, riflessioni e desideri comuni. 
C’è tanto di attuale, a mio parere, nella visione pedagogico-linguistica del maestro eugubino, a cominciare dall’idea del continuo ampliamento e arricchimento dello spazio linguistico.
Ma nella pratica della scrittura dei due linguaggi c’è di più: c’è il messaggio implicito che le parole del bambino e della sua famiglia sono importanti, i suoi discorsi sono seri, non sono bozzetti per ridere: tanto importanti che il maestro li fa scrivere in “bella copia”, li trascrive sulla sua agenda.
Ecco come la cultura del bambino entra a pieno titolo nella costruzione della sua personalità, oltre che in quella della strumentalità linguistica.

Spigarelli e la cultura di fine Novecento
L’impostazione data da Spigarelli al rapporto lingua-dialetto ha avuto effetti notevoli non solo a livello didattico, ma più in generale a livello culturale, aprendo la strada a un riconoscimento del valore comunicativo di tutte le forme linguistiche. 
Posso testimoniare ad es. che il testo di Spigarelli fu una delle fonti che ispirarono, negli anni 80 del Novecento, la nascita della Associazione di cultura popolare Il Bartoccio.
Tuttavia devo dire che è ancora dura a morire una concezione del dialetto come divertimento folcloristico, pretesto per bozzettismi di maniera, che ancora in questi primi decenni del Duemila, in tempi in cui il possesso di più forme linguistiche è ormai un dato di fatto, e tra esse il dialetto ha acquistato un valore di riconoscimento al di là dell’uso effettivo.
Questo valore è presente in alcuni poeti dialettali, soprattutto alcune donne, che nel dialetto riscrivono la radice profondo del loro essere persone, e ricorrono proprio al dialetto stretto, rustico, direi primitivo, della loro infanzia: citerò solo Ombretta Ciurnelli, Anna Maria Farabbi, Nadia Mogini. La loro poesia si colloca autorevolmente nella scia della grande poesia dialettale italiana degli ultimi decenni.
Tuttavia troppo spazio ha ancora un uso ridicolizzante e sminuente del dialetto come linguaggio di bozzetti e scenette di maniera: un uso troppo a lungo incentivato anche da iniziative banalizzatrici sostenute persino dalle istituzioni.

La grafia del dialetto
Un aspetto particolare su cui mi vorrei soffermare è la scrittura del dialetto. Questa ha sempre posto grossi problemi a chi si accinge a scrivere in dialetto: questo, infatti essendo soprattutto d’uso orale, non ha mai raggiunto una forma ortografica compiuta, corrispondente alla pronuncia effettiva. Spigarelli in questo non ha dubbi: la forma ortografica del dialetto è la stessa dell’italiano, e non può essere diversamente per una parlata come quella umbra, da cui è nata la lingua italiana. Poiché l’eugubino, come il perugino, tende a far scomparire molte vocali atone, Spigarelli fa in modo che il testo sia leggibile e comprensibile, segnalando soprattutto aferesi, elisioni, troncamenti. In tal modo si mantiene la segmentazione delle particelle (pronomi, avverbi, articoli, preposizioni, ecc.), per cui ogni concetto è ben articolato:

- O fii, ‘n po’ n’ la fète fugge ‘sta pecora, che io so’ tutta storta, doppo me pista.
- Donne n’ fète tante sciapète che l’ sei che i soldi n’ c’enno.
- Tu ‘l vino l’ bevi sempre ma a la notte te dole lu stòmmico.
 
Un bell’esempio di accuratezza, che purtroppo non vediamo gran che seguita. Specialmente a Perugia, si è andato diffondendo (ad opera di qualche improvvisato divulgatore dilettante) una grafia illogica e sconsiderata, senza alcuna base scientifica, che mira a eliminare i segni grafici, in particolare l’apostrofo (salvo poi scrivere svarioni del tipo n’amor). 
Non c’è che da augurarsi che questa moda rovinosa possa esser superata. Anche su questa questione, il ritorno a Spigarelli può costituire un valido punto di riferimento.





Renzo Zuccherini

Inserito mercoledì 28 agosto 2024


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