Chiusa la mostra sul Maestro di San Francesco, rimangono le suggestioni
La mostra ha ulteriormente chiarito che il Duecento italiano è un secolo meraviglioso durante il quale sono nate nuove forme di città, università, ordini religiosi, un’arte talmente vivace da rinnovarsi continuamente
La mostra sul “Maestro di san Francesco” alla Galleria Nazionale dell’Umbria si è conclusa, e confermando d’essere tra quelle necessarie continua a far venire pensieri, a ribadire certezze, a far sorgere dubbi. Nel visitarla si aveva l’impressione d’aggirarsi nell’atelier assisiate dove il “Maestro di san Francesco” e gli altri maestri lavoravano e come succede girando per musei e mostre capita d’innamorarsi di qualche quadro, di qualche artista, di ricevere suggestioni.
Se ce ne fosse stato ancora bisogno “Il Maestro di San Francesco e lo stil novo del Duecento umbro” ha ulteriormente chiarito che il Duecento italiano è un secolo meraviglioso durante il quale sono nate nuove forme di città, università, ordini religiosi, un’arte talmente vivace da rinnovarsi continuamente il cui centro è stato la basilica francescana d’Assisi per la quale hanno lavorato i maestri più grandi. Inoltre ha confermato che non solo Andrea De Marchi ma anche gli altri due curatori Veruska Picchiarelli ed Emanuele Zappasodi sono tra i principali storici dell’arte medievale italiana, e sancito che il Duecento non è solo il secolo di Giunta Pisano e Cimabue ma pure quello del “Maestro di san Francesco” autore dell’imponente crocefisso di San Francesco al Prato custodito dalla Galleria Nazionale dell’Umbria intorno al quale, e alle stimmate di Francesco, è nata l’idea della mostra.
L’opera che da questa esposizione porterò nel cuore è la tavola reliquia (per tradizione dipinta sul tavolo dove Francesco venne lavato) proveniente dal Museo del Tesoro della Basilica di san Francesco. Entrata in mostra come opera del “Maestro del Tesoro” ne esce attribuita a Giunta Pisano. Come si fa a non rimanere colpiti da quel caleidoscopio di colori? Racconta com’era colorato il Medioevo e il bisogno che in quel tempo uomini e donne avevano d’affidarsi ai santi per essere curati. Vista da sinistra a destra in senso orario è un trattato di medicina: ortopedia; pediatria; psichiatria con l’indemoniata e un fiore, enorme e angosciante, sul fondo oro che sembra essere stato graffito lì dal nostro contemporaneo Anselm Kiefer; infettivologia con un lebbroso che con le nacchere avvisa del suo passaggio.
E che dire del burbero capolavoro del “Maestro di santa Chiara”? Un Cristo crocefisso proveniente da Gualdo Tadino con il corpo così sodo da annunciare l’arte di Cimabue. Sembra un contadino dal volto aggrinzito dal sole o un soldataccio che razziato al nemico un raffinato tessuto lo esibisce trasformato in un perizoma color vinaccia increspato di luce.
Per finire il Trittico Marzolini, uno dei capolavori della Pinacoteca perugina carico d’arte e mistero. Per Pietro Scarpellini un unicum arrivato a Perugia forse al seguito dei templari preso a modello dall’autore degli affreschi di San Matteo degli Armeni e di Santa Giuliana, per i curatori della mostra un trittico il cui autore è radicato nella città al punto da indicare il “Maestro del Trittico Marzolini” come probabile autore di quegli affreschi.
Opinioni diverse che non devono far pensare a ripicche o a creare tifoserie. L’arte è affascinante perché vive anche di questi misteri, basti pensare alla grande questione giottesca sugli affreschi della Basilica superiore d’Assisi o a quella piccola ma inestricabile della “Nicchia di san Bernardino” alla Galleria Nazionale dell’Umbria.
Personalmente ritengo che la mostra abbia confermato che il “Trittico Marzolini” è una meraviglia capitata chissà come a Perugia. Mi ha rafforzato in questo convincimento vedere una di fianco all’altra la Madonna Marzolini e un’altra proveniente da Siena attribuita alla stessa mano. Effettivamente sono una l’immagine speculare dell’altra ma se nel Trittico ogni pennellata sprigiona sentimento e calore e guardando la Madonna senti la carezza del suo sguardo, l’altra ogni volta che l’ho scorsa m’è sembrata solo un’algida copia.
Vanni Capoccia
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